KATHY REICHS

RESTI UMANI

(Deadly Décisions, 2000)

 

Dedicato con affetto

al Carolina Beach Bunch

 

RINGRAZIAMENTI

 

Sono molte le persone che mi hanno aiutata a scrivere Resti umani. Particolarmente pazienti sono stati i miei colleghi della polizia e del mondo forense. Devo un sentito ringraziamento al sergente Guy Ouelette della Division of Organized Crime Unit, Sûreté du Québec, e al capitano Steven Chabot, al sergente Yves Trudel, al caporale Jacques Morin e all'agente Jean Ratté dell'Opération Carcajou a Montréal.

Presso la polizia della Communauté Urbaine de Montréal devo ringraziare il tenente Jean-François Martin, della Division des Crimes Majeures, il sergente Johanne Bérubé, della Division Agressions Sexuelles, e il comandante Andre Bouchard, della sezione Moralité, Alcool et Stupéfiant del Centre Opérational Sud, che hanno avuto la pazienza di rispondere alle mie domande e di illustrarmi il funzionamento delle unità di polizia. Un ringraziamento speciale deve andare al sergente Stephen Rudman, Superviseur, Analyse et Liaison del Centre Opérational Sud, che ha risposto a molte mie domande, mi ha procurato alcune utili cartine e mi ha accompagnata a visitare il carcere.

Dei miei colleghi del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, devo ringraziare il dottor Claude Pothel per i commenti di patologia e François Julien della Section de Biologie per le sue dimostrazioni sugli spruzzi di sangue. Ringrazio anche Pat Laturnus per avermi fornito una consulenza sullo stesso argomento.

In North Carolina vorrei ringraziare il capitano Terry Sult della Intelligence Unit del Dipartimento di polizia Charlotte-Mecklenburg; Roger Thomson, direttore del Crime Laboratory del Dipartimento di polizia Charlotte-Mecklenburg; Pam Stephenson, analista responsabile della sezione Intelligence and Technical Services dello State Bureau of Investigation del North Carolina; Gretchen C.F. Shappert, dell'ufficio del Viceprocuratore Generale, e il dottor Norman J. Kramer del Mecklenburg Medical Group.

Tra gli altri che mi hanno dedicato il loro tempo e le loro conoscenze, non posso non ricordare il dottor G. Clark Davenport, geofisico presso la NecroSearch International, il dottor Wayne Lord, del National Center for the Analysis of Violent Crime presso l'Accademia dell'FBI a Quantico, in Virginia, e Victar Svoboda, direttore dell'ufficio stampa presso il Montréal Neurological Institute e presso il Montréal Neurological Hospital. Il dottor David Taub è stato il guru che mi ha dischiuso il mondo Harley-Davidson.

Sono in debito con Yves St. Marie, direttore del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, con il dottor Andre Lauzon, responsabile del Laboratoire de Médecine Légale, e con il dottor James Woodward, consigliere alla University of North Carolina di Charlotte per il loro ininterrotto sostegno.

Rivolgo un ringraziamento particolare a Paul Reichs per i suoi preziosi commenti sul manoscritto.

Come sempre, non può mancare un sentito ringraziar mento ai miei straordinari editori, Susanne Kirk di Scribner e Lynne Drew di Random House, e alla mia dinamica agente, Jennifer Rudolph Walsh.

Benché il libro abbia beneficiato degli interventi di molti esperti, gli eventuali errori di Resti umani sono da attribuire a me sola.

 

1

 

Si chiamava Emily Anne. Nove anni, riccioli neri, ciglia lunghe, pelle ambrata. I lobi forati da due anellini d'oro. La fronte da due proiettili di Cobray semiautomatica calibro nove.

 

Era sabato, e stavo lavorando su speciale richiesta del mio capo, Pierre LaManche. Dopo quattro ore di analisi su tessuti orribilmente straziati, d'un tratto la porta dell'ampia sala autopsie si aprì e l'investigatore Luc Claudel irruppe nella stanza.

Claudel e io avevamo già lavorato insieme in passato, ma dai suoi modi sbrigativi era difficile capire che nel tempo aveva imparato a sopportarmi, forse perfino ad apprezzarmi.

«Dov'è LaManche?» domandò lanciando un'occhiata al tavolo operatorio che avevo di fronte, ma distogliendo subito lo sguardo.

Non risposi. Quando aveva la luna storta, in genere lo ignoravo.

«LaManche è già arrivato?» insisté, evitando di guardare i miei guanti sudici.

«È sabato, Monsieur Claudel. LaManche non...»

In quel momento Michel Charbonneau fece capolino in sala autopsie e dalla porta semiaperta filtrò il rumore della porta elettrica sul retro dell'edificio.

«Le cadavre est arrivé» comunicò al collega.

Quale cadavere? E perché due investigatori della Omicidi si trovavano in obitorio di sabato pomeriggio?

«Hey, Doc» mi salutò in inglese Charbonneau, un omone dai capelli di porcospino.

«Che cosa sta succedendo?» domandai sfilandomi guanti e mascherina.

Fu Claudel a rispondermi, la faccia tesa, lo sguardo triste sotto la luce impietosa dei neon.

«Tra poco arriverà il dottor LaManche e potrà darle tutte le spiegazioni del caso.»

Aveva già la fronte imperlata di sudore e la bocca serrata in una linea sottile. Claudel detestava le autopsie ed evitava l'obitorio il più possibile. Senza aggiungere una sola parola spalancò la porta e uscì, ignorando il collega rimasto sulla soglia. Charbonneau lo guardò allontanarsi nel corridoio, poi si voltò verso di me.

«È dura per lui. Ha figli piccoli.»

«Figli piccoli?» Il petto mi si strinse in una morsa di gelo.

«Questa mattina gli Heathens hanno colpito. Ha mai sentito parlare di Richard Marcotte?»

Quel nome mi suonò vagamente familiare.

«Forse lo conosce meglio con il soprannome di Araignée. O Ragno, se preferisce. Un grande, oltre a essere un leader riconosciuto nel mondo dei biker irregolari. Ragno è un cosiddetto "questore" ed è membro dei Vipers. Oggi però la giornata gli è andata storta. Stamattina è uscito di casa intorno alle otto, per andare in palestra, e gli Heathens lo hanno fatto secco sparandogli da un'auto in corsa, mentre la sua compagna si è tuffata in un cespuglio di lillà per salvarsi la pelle.»

Charbonneau si passò una mano tra i capelli e deglutì.

Aspettai.

«Nel frattempo sono riusciti a far fuori anche una bambina.»

«Dio, no!» Serrai le dita sui guanti che avevo in mano.

«Proprio così. Una bambina. L'hanno portata al Children's Hospital di Montréal ma non ce l'ha fatta. Adesso sta arrivando qui. Marcotte invece è arrivato in ospedale già morto. È qua fuori.»

«LaManche sta venendo in istituto?»

Charbonneau annuì.

I cinque patologi del Laboratoire erano reperibili a turno e, anche se capitava di rado, quando si rendevano necessari un sopralluogo o un'autopsia straordinari qualcuno era sempre a disposizione. Quel giorno era il turno di LaManche.

Una bambina. Mi sentii assalire da una ridda di emozioni familiari e sentii il bisogno di scappare via.

Il mio orologio segnava le dodici e quaranta. Mi tolsi il grembiule di plastica, lo accartocciai insieme alla mascherina e ai guanti in lattice e gettai il tutto in un bidoncino per i rifiuti biologici. Dopodiché mi lavai le mani, andai all'ascensore e salii al dodicesimo piano

Non so per quanto tempo rimasi seduta nel mio ufficio, con lo sguardo fisso sul San Lorenzo e del tutto disinteressata al mio vasetto di yogurt. A un certo punto mi sembrò di udire la porta di LaManche che si apriva, poi il fruscio delle porte a vetri di sicurezza che dividono le varie sezioni della nostra ala.

La professione di antropologa forense mi ha portato a sviluppare una sorta di immunità alla morte violenta. E poiché baso le mie consulenze sull'analisi delle ossa di corpi mutilati, bruciati e decomposti, posso dire di aver visto il peggio del peggio. Lavoro tra obitori e sale autopsia, sicché conosco molto bene l'aspetto di un cadavere, il suo odore, il modo in cui reagisce ai tagli del bisturi. Sono abituata ai vestiti insanguinati stesi ad asciugare, al rumore di una sega Stryker che penetra in un osso, alla vista di organi che galleggiano in contenitori di vetro numerati.

Ciononostante, la realtà di un bambino morto mi coglie ancora e sempre impreparata. Lo scolaretto seviziato, il neonato picchiato, il figlio emaciato di un fanatico religioso, la vittima preadolescente di un pedofilo. La violazione dei giovani innocenti non manca mai di gettarmi nell'angoscia.

Non molto tempo prima avevo lavorato al caso di due gemellini di pochi mesi mutilati e uccisi. Era stata una delle esperienze più difficili della mia carriera, e non volevo infilarmi un'altra volta in un simile tunnel emotivo.

Ma devo ammettere che quel caso era stato anche motivo di grande soddisfazione, e quando la fanatica colpevole era finita in prigione avevo avuto la netta sensazione di aver compiuto qualcosa di buono.

Sollevai il tappo di alluminio del vasetto e mescolai lo yogurt.

Le immagini di quei gemelli continuavano a girarmi in testa. Ricordai gli stati d'animo che avevo provato quel giorno in obitorio, i ricordi di mia figlia bambina.

Santo cielo, ma perché tutta quella follia? I due uomini che avevo lasciato letteralmente a pezzi nel seminterrato erano morti a causa della guerra tra biker.

Non farti prendere dallo sconforto, Brennan. Arrabbiati. Dai spazio a una rabbia fredda e determinata. E poi usa la tua professionalità per inchiodare quei bastardi.

«Sì» dissi a voce alta approvando i miei pensieri.

Terminai lo yogurt e tornai in obitorio.

 

Charbonneau aspettava seduto nell'anticamera di una delle sale autopsia più piccole, sfogliando le pagine di un taccuino a spirale. Il corpo imponente traboccava oltre l'esiguo sedile di una sedia in plastica posta di fronte a una scrivania. Claudel era sparito dalla circolazione.

«Come si chiama la bambina?» domandai.

«Emily Anne Toussaint. Stava andando al corso di danza.»

«Dove?»

«Verdun.» Indicò con un cenno della testa la stanza adiacente. «LaManche ha già cominciato.»

Passai accanto all'investigatore ed entrai in sala autopsia.

Il mio capo stava prendendo appunti e scattando polaroid. Accanto a lui, un fotografo immortalava altri particolari.

Osservai LaManche tenere la macchina fotografica dalle impugnature laterali, poi sollevarla e abbassarla sul cadavere. Mentre l'obiettivo ruotava per trovare la messa a fuoco, un puntino sfocato e poi sempre più nitido prese corpo in corrispondenza di una delle ferite sulla fronte della bambina. Quando il contorno del puntino fu perfettamente a fuoco, LaManche premette il pulsante dell'otturatore. Dopo poco un quadrato bianco scivolò fuori dalla macchina. Il patologo lo sfilò e lo posò su un piano di lavoro, accanto ad altre immagini simili.

Il corpo di Emily Anne portava i segni dello sforzo immane con cui i medici avevano cercato di salvarle la vita. Nonostante la testa parzialmente bendata, notai una cannula trasparente spuntarle dal cranio: era servita a misurare la pressione endocraniale. Nella gola aveva una cannula endotracheale che arrivava fino alla trachea e all'esofago, inserita per ossigenare i polmoni e per bloccare il rigurgito dello stomaco. Nei vasi sanguigni succlavi inguinali e femorali aveva ancora i cateteri per l'infusione endovenosa e sul petto i cerotti bianchi degli elettrodi per l'elettrocardiogramma.

Un intervento frenetico, quasi un assalto. Socchiusi le palpebre e mi sentii gli occhi umidi di lacrime.

Riportai lo sguardo sul corpicino. Emily Anne indossava solo il braccialetto di plastica dell'ospedale. Accanto a lei, la camicia verdina dei ricoverati, un involto di vestiti, uno zainetto rosa e un paio di scarpe da ginnastica rosse.

Luce al neon impietosa. Scintillio di piastrelle e acciaio. Gelidi, sterili strumenti chirurgici. Una bambina non c'entrava niente con quel posto.

Quando alzai gli occhi, incrociai lo sguardo di LaManche. Evitammo entrambi ogni riferimento a ciò che avevamo davanti, sul tavolo operatorio d'acciaio, ma questo non mi impedì di indovinare i pensieri del patologo. Un altro bambino. Un'altra autopsia. Un'altra volta in quella sala.

Diedi un colpo di tosse per tenere a bada le emozioni e gli descrissi i progressi dei casi che stavo seguendo - i due biker uccisi dalla loro stessa follia - domandando quando avrei potuto consultare la documentazione medica ante mortem. LaManche mi disse che i dossier erano già stati richiesti e con molta probabilità sarebbero arrivati il lunedì seguente.

Lo ringraziai e andai a riprendere il mio lugubre compito. Mentre analizzavo i tessuti, ripensai alla conversazione telefonica avuta con LaManche, e desiderai essere ancora tra i boschi della Virginia. Possibile che fossero trascorsi solo due giorni da quella telefonata? Due giorni prima Emily Anne era ancora viva.

Quante cose possono cambiare in quarantott'ore.

 

2

 

Due giorni prima mi trovavo all'Accademia dell'FBI di Quantico per tenere un seminario sul recupero dei cadaveri. Mentre i miei allievi, una squadra di tecnici addetti al recupero prove, stavano dissotterrando uno scheletro e procedendo alla mappatura del sito, d'un tratto alzai lo sguardo e tra gli alberi notai un agente speciale. Era venuto a riferirmi che un certo dottor LaManche mi voleva parlare con urgenza. A disagio, lasciai la squadra e m'inoltrai nel bosco.

Percorrendo il sentiero che conduceva alla strada, pensai a LaManche e al motivo della sua chiamata. All'inizio degli anni Novanta, nell'ambito di uno scambio tra la mia università e la McGill University di Montréal, avevo iniziato a collaborare in qualità di consulente con il Laboratoire de Médecine Légale, l'Istituto di medicina legale, e con il Laboratoire de Sciences Judiciaires, il Laboratorio centrale per le discipline forensi del Québec. LaManche, sapendo che ero abilitata alla professione dall'American Board of Forensic Anthropology, voleva capire se potevo essere utile al suo istituto.

La provincia del Québec aveva un sistema di medicina legale centralizzato formato da moltissimi istituti e laboratori, che però non prevedeva la figura professionale dell'antropologo forense. All'epoca lavoravo, e lavoro ancora, come consulente presso l'Office of the Chief Medical Examiner, il dipartimento di medicina legale del North Carolina, e LaManche mi aveva chiesto di collaborare anche con il Laboratoire de Médecine Légale. Così, mentre il ministero trovava i fondi per finanziare un laboratorio di antropologia, io mi ero iscritta a un corso intensivo di francese. E ormai da più di dieci anni i cadaveri scheletrizzati, decomposti, mummificati, bruciati e mutilati della provincia del Québec arrivano da me per essere analizzati e identificati. Quando una normale autopsia è impossibile o inutile, intervengo io ricavando dalle ossa tutte le informazioni che posso.

LaManche mi aveva lasciato messaggi urgenti pochissime volte. E non si era mai trattato di buone notizie.

Nel giro di qualche minuto raggiunsi un furgone parcheggiato su una strada di ghiaia. Mi sciolsi la coda e passai una mano tra i capelli.

Niente zecche.

Richiusi il fermaglio, recuperai il mio zaino dal furgone e presi il cellulare. Il piccolo display mi disse che avevo ricevuto tre chiamate. Controllai i numeri telefonici. Tutt'e tre provenivano dal Laboratoire.

Provai a mettermi in contatto ma il segnale andava e veniva. In effetti avevo lasciato il cellulare nel furgone proprio per quel motivo. Accidenti. Nel giro di dieci anni avevo acquisito una certa dimestichezza con il francese, ma i rumori di fondo e le linee disturbate mi creavano ancora dei problemi. Tra difficoltà linguistiche e segnale debole, con quel telefonino non sarei mai riuscita a contattare LaManche, così decisi di tornare a piedi alla sede dell'Accademia. Mi sfilai la tuta da lavoro e la riposi in uno scatolone nel bagagliaio del furgone, quindi mi gettai lo zainetto dietro la schiena e cominciai a scendere la collina.

In alto un falco volava in cerchio intorno al suo bersaglio. Il cielo era terso, di un azzurro intenso, picchiettato da qualche raro e fluttuante batuffolo bianco. Il seminario in genere si teneva in maggio, ma quell'anno era stato anticipato al mese di aprile, nonostante il rischio di qualche rovescio o di una temperatura non ancora mite. Invece la colonnina di mercurio si era stabilizzata sui venticinque gradi.

Mentre camminavo, ascoltai i suoni che mi circondavano. I miei scarponcini che scricchiolavano sulla ghiaia. Cinguettii. Il fruscio lontano delle pale di un elicottero. Colpi di armi da fuoco. L'FBI condivide l'Accademia di Quantico con altre agenzie federali di polizia e con i Marines, sicché le attività più disparate fervono ovunque e di continuo.

La stradina di ghiaia incontrava l'asfalto all'altezza di Hogan's Alley, proprio sotto il finto quadrato di case utilizzato dall'FBI, dalla DEA, dall'ATF e da altri organismi per le esercitazioni. Feci il giro largo sulla sinistra per non intralciare un'operazione di recupero ostaggi e svoltai a destra su Hoover Road, da dove raggiunsi un complesso in cemento dai tetti sovrastati da una selva di antenne. Attraversai un piccolo parcheggio e suonai un campanello per entrare nel Centro Ricerca e Addestramento Discipline Forensi.

Una porta si schiuse, aperta da un uomo giovane ma completamente calvo, e con tutta l'aria di esserlo da parecchio tempo.

«Hai finito prima?»

«No. Devo fare una telefonata al mio istituto.»

«Puoi usare il mio ufficio.»

«Grazie, Craig. Mi sbrigo in un minuto.» Almeno spero.

«Sto controllando delle apparecchiature, quindi fai pure con comodo.»

L'Accademia è spesso paragonata a una tana di criceti per via del dedalo di gallerie e corridoi che collega i vari edifici. Ma i piani superiori non sono niente in confronto al labirinto dei sotterranei.

Ci inoltrammo in una zona stipata di scatoloni e di casse, di vecchi monitor di computer e parti di apparecchiature metalliche; prima un corridoio, poi altri due, finché non giungemmo a un ufficio grande appena per contenere scrivania, sedia, armadietto e scaffale. Craig Beacham lavorava per il CNACV, il Centro Nazionale Analisi Crimini Violenti, uno dei principali organismi del GRIG, il Gruppo Risposta Incidenti Gravi dell'FBI. Per un certo periodo era stato chiamato USKRI, Unità Serial Killer e Rapimenti Infantili, ma di recente era tornato al nome originario. Da quando l'addestramento delle squadre di Tecnici addetti al Recupero Prove, o TRP, è una delle funzioni del CNACV, l'organizzazione del mio seminario annuale spetta proprio a questa sezione.

Per avere a che fare con l'FBI, bisogna sapersi destreggiare molto bene con gli acronimi.

Craig raccolse una pila di dossier dalla sua scrivania e li spostò sull'armadietto.

«Così, se devi prendere un appunto, almeno hai un po' di spazio. Devo chiudere la porta?»

«No, grazie. Va bene così.»

Il mio ospite annuì e scomparve nel corridoio.

Inspirai a fondo, mi programmai mentalmente sul francese e composi il numero.

«Bonjour, Temperance.» LaManche era l'unico, dopo il prete che mi aveva battezzato, a utilizzare la versione non abbreviata del mio nome. Tutti gli altri mi chiamavano Tempe. «Comment ça va?»

Risposi che stavo bene.

«La ringrazio di avermi richiamato» riprese. «Quassù si sta delineando una situazione davvero terribile e temo che avremo bisogno del suo aiuto.»

«Oui?» Terribile? LaManche non era incline alle esagerazioni.

«Les motards. Ne sono morti altri due.»

Les motards. I biker. Da più di dieci anni la bande rivali di teppisti motorizzati si davano battaglia per il controllo del traffico di droga nel Québec. Avevo già lavorato a diversi casi di motards, vittime di armi da fuoco successivamente bruciate per impedirne il riconoscimento.

«Oui?»

«Per il momento questa è la ricostruzione della polizia. La notte scorsa tre membri degli Heathens sono arrivati in automobile davanti alla sede dei Vipers portando con sé una potente bomba di fabbricazione casalinga. L'uomo di guardia alle telecamere di sorveglianza ha notato una coppia avvicinarsi a piedi reggendo un grosso involucro. Ha sparato e la bomba è esplosa.» LaManche si interruppe. «Il conducente è all'ospedale in gravi condizioni. Quanto agli altri due, la porzione di cadavere più grossa pesa quattro chili e mezzo.»

Aiuto.

«Temperance, ho cercato di mettermi in contatto con l'agente Martin Quickwater. Si trova lì a Quantico, ma è impegnato per tutto il giorno in una riunione per la revisione di un caso.»

«Quickwater?» Non era un nome québécois.

«È un nativo americano. Un Cree, mi sembra.»

«C'entra qualcosa con quelli della Carcajou?»

L'Operazione Carcajou è una task force multigiurisdizionale creata per investigare le attività criminali delle bande di motociclisti irregolari in Québec.

«Oui.»

«Che cosa devo fare?»

«Dovrebbe riferire all'agente Quickwater ciò che le ho detto e chiedergli di mettersi in contatto con me. Poi vorrei che venisse qui appena possibile. L'identificazione dei cadaveri potrebbe darci dei problemi.»

«Avete recuperato polpastrelli sottoponibili a dattiloscopia o frammenti dentarii?»

«No. E non è molto probabile che riusciremo a trovarne.»

«Il DNA?»

«Anche per quello potrebbero esserci dei problemi. La situazione è complicata, e preferirei non parlarne al telefono. Per lei è possibile tornare prima del previsto?»

Come ogni anno, avevo concluso il semestre primaverile alla University of North Carolina di Charlotte in tempo per tenere il seminario all'Accademia dell'FBI. Mi restavano solo da leggere gli esami finali, poi sarei potuta volare a Washington da alcuni amici per una breve vacanza, prima di andare a Montréal per l'estate. Invece la mia vacanza avrebbe dovuto aspettare.

«Sarò lì domani.»

«Merci.»

LaManche proseguì nel suo francese corretto ed elegante, la voce bassa venata da una nota di stanchezza, o di tristezza. «Non va per niente bene, Temperance. Gli Heathens si vendicheranno. E poi i Vipers verseranno altro sangue.» Lo udii tirare un lungo respiro ed espirare lentamente. «Temo che la situazione evolverà in una guerra di vaste proporzioni che potrebbe costare la vita a molti innocenti.»

Ci salutammo e chiamai subito la US Airways per prenotare un volo per il mattino dopo. Mentre abbassavo la cornetta, Craig Beacham comparve sulla porta. Gli spiegai di Quickwater.

«Un agente?»

«Sì, della Royal Canadian Mounted Polke. O della GRC, se preferisci il francese. Gendarmerie Royale du Canada.»

«Aspetta un momento.»

Craig compose un numero e chiese dove fosse l'agente. Dopo una pausa scarabocchiò qualcosa e riagganciò.

«Il tuo uomo è chiuso in una delle sale qui intorno per una riunione.» Mi porse il numero che aveva annotato e mi diede qualche indicazione. «Tu infilati dentro e siediti. È facile che verso le tre facciano una pausa.»

Lo ringraziai e vagai per i corridoi finché non trovai la sala. Attraverso la porta chiusa udii delle voci soffocate.

Il mio orologio segnava le due e venti. Girai la maniglia ed entrai.

A parte il fascio di luce di un proiettore e l'alone color albicocca che circondava una diapositiva, la sala era immersa nel buio. Sedute intorno al tavolo centrale riuscii a distinguere una decina di figure. Mentre prendevo posto su una sedia appoggiata a una parete qualche testa si voltò a guardare, ma la maggior parte degli occhi rimasero fissi sullo schermo.

Per i successivi trenta minuti osservai la previsione di LaManche concretizzarsi in una serie di dettagli raccapriccianti. Un bungalow colpito da una bomba, brandelli di tessuti appiccicali alle pareti, porzioni di corpi sparpagliati sul prato. Un tronco femminile, una faccia ridotta a una massa informe e rossastra, le ossa del cranio spappolate da un colpo di doppietta. La carrozzeria annerita di un'utilitaria, una mano carbonizzata che penzolava fuori da uno dei finestrini posteriori.

Alla destra del proiettore, un uomo faceva scorrere le diapositive e commentava le guerre tra bande di biker a Chicago. La voce mi suonò vagamente familiare ma non riuscii a distinguere i suoi lineamenti.

Altre immagini. Esplosioni. Accoltellamenti. Di quando in quando sbirciavo le sagome intorno al tavolo. Tranne una, tutte avevano capelli a spazzola.

Alla fine lo schermo divenne bianco, il proiettore prese a ronzare e nel fascio di luce rimasero a fluttuare le particelle di polvere. Le sedie scricchiolarono mentre i loro occupanti si stiracchiavano, guardandosi l'un l'altro.

L'uomo che commentava le diapositive si alzò e si avvicinò a una parete. Quando le lampade sul soffitto si accesero riconobbi l'agente speciale Frank Tulio, conosciuto qualche anno prima durante il mio seminario. Anche lui mi vide, e mi salutò con un largo sorriso.

«Tempe. Come ti va la vita?»

Tutto in Frank era impeccabile. Dai capelli brizzolati scolpiti a rasoio, al corpo compatto, alle immacolate scarpe italiane. Diversamente dal resto di noi, grazie alla moda e all'esercizio fisico Frank si manteneva in gran forma.

«Non posso lamentarmi. Sei sempre a Chicago?»

«Fino all'anno scorso. Adesso lavoro qui, mi hanno assegnato al GRIG.»

Tutti gli sguardi erano concentrati su di noi. E solo allora mi ricordai dello stato del mio abbigliamento e dei miei capelli. Frank si rivolse ai colleghi.

«Conoscete tutti la grande dottoressa delle ossa?»

Mentre Frank procedeva alle presentazioni, le persone sedute intorno al tavolo annuirono e sorrisero. Riconobbi qualcuno, altri no. Un paio di agenti fece qualche battuta su episodi del passato di cui ero stata protagonista.

Due dei presenti non erano membri dell'Accademia. L'unica chioma fluente che avevo notato apparteneva a Kate Brophy, supervisore della Unità di intelligence dell'SBI - State Bureau of Investigation - della North Carolina. Kate era da sempre esperta di bande di biker irregolari. Ci eravamo conosciute all'inizio degli anni Ottanta, quando in North e South Carolina imperversava la guerra fra gli Outlaws e gli Hells Angels e io avevo identificato due delle vittime.

A una estremità del tavolo una ragazza dattilografava su qualcosa che ricordava una macchina per stenografia. Accanto a lei, Martin Quickwater sedeva dietro a un computer portatile. Aveva il viso largo, gli zigomi alti, le sopracciglia che finivano ad angolo. La sua pelle aveva il colore del mattone bruciato.

«Sono sicuro che voi stranieri vi conoscete già» disse Frank.

«Veramente no» risposi io, «ma è appunto questo il motivo per cui mi sono intrufolata qui dentro. Devo parlare con l'agente Quickwater.»

Quickwater mi concesse non più di cinque secondi di attenzione, poi riportò lo sguardo sullo schermo del suo computer.

«Sei arrivata al momento giusto. Siamo pronti per una pausa.» Frank diede un'occhiata all'orologio e andò a spegnere il proiettore. «Andiamo a farci un po' di caffeina e ritroviamoci qui alle tre e mezzo.»

Mentre gli agenti mi sfilavano davanti, uno dei membri del CNACV unì pollici e indici formando un quadrato e finse di mettermi a fuoco attraverso un mirino. Eravamo amici da una decina d'anni e sapevo che non mi avrebbe risparmiato una battutaccia.

«Bella mossa, Brennan. Per caso hai fatto un patto con il giardiniere? Aiuole e taglio di capelli in un colpo solo?»

«Evidentemente qualcuno ha ancora voglia di lavorare davvero, agente Stoneham.»

Lui rise e uscì.

Quando io e Quickwater rimanemmo soli, gli sorrisi e mi avvicinai per presentarmi meglio.

«So benissimo chi è lei» tagliò corto Quickwater, in un inglese lievemente accentato.

I suoi modi così sbrigativi mi sorpresero, e trattenni a fatica una risposta altrettanto sgarbata. Forse essere sudata e scarmigliata mi aveva reso suscettibile.

Quando gli spiegai che LaManche aveva cercato di contattarlo, Quickwater si sfilò il cercapersone dalla cintura per verificare, quindi scosse la testa e con un sospiro sbatté l'oggetto contro il palmo della mano, per poi riagganciarselo in vita.

«Le batterie» disse laconico.

Gli riferii ciò che mi aveva detto LaManche, mentre lui mi fissava attento. I suoi occhi erano così scuri che era impossibile distinguere la pupilla. Quando ebbi finito annuì, si girò e lasciò la sala.

Per un attimo rimasi lì impalata a riflettere sullo strano comportamento di quell'uomo. Fantastico. Non solo dovevo rimettere insieme i pezzetti di due biker, ma avevo come socio Mister Simpatia.

Raccolsi lo zainetto e tornai nel bosco.

Nessun problema, Quickwater. L'ho spuntata con gente molto più stronza di te.

 

3

 

Il viaggio verso Montréal fu molto tranquillo, a parte l'atteggiamento sprezzante di Martin Quickwater. Pur essendo sul mio stesso volo, non mi rivolse la parola né fece il gesto di venirsi a sedere accanto a me. Ci scambiammo un cenno di saluto al Washington-Reagan, e un altro mentre aspettavamo nella fila della dogana a Montréal-Dorval. Tutto quel gelo comunque mi andava bene: non avevo affatto voglia di entrare in confidenza con lui.

Presi un taxi e andai al mio appartamento, che si trovava a Centre-Ville. Posai i bagagli e mi scongelai un burrito, una specie di tortilla messicana ripiena. Poi uscii per andare al Laboratoire. La mia vecchia Mazda si animò al terzo tentativo.

Per anni l'Istituto di medicina legale aveva occupato il quinto piano di un palazzo noto come "Edificio SQ". La Sûreté du Québec, cioè la polizia di stato, aveva sempre avuto per sé i piani rimanenti tranne il dodicesimo e il tredicesimo, destinati a un carcere. L'obitorio e le sale autopsia erano nel seminterrato.

Di recente, però, il governo del Québec aveva stanziato milioni per ristrutturare l'edificio. Il penitenziario era stato trasferito e gli ultimi piani, rimasti liberi, erano stati assegnati agli uffici e ai laboratori dell'Istituto di medicina legale. Erano ormai passati mesi dal trasloco, ma non riuscivo ancora a credere al cambiamento. Dal mio nuovo ufficio, infatti, godevo di una splendida vista sul fiume San Lorenzo, e disponevo di un laboratorio di prima classe.

Alle tre e mezzo di venerdì il consueto via vai dei giorni feriali cominciava a scemare. Una a una, le porte si stavano chiudendo alle spalle di un esercito di scienziati e di tecnici in camice bianco.

Aprii il mio ufficio e appesi il giubbotto alla piantana di legno. Tre moduli bianchi aspettavano sulla scrivania. Presi quello firmato da LaManche.

La Demande d'Expertise en Anthropologie costituisce spesso il mio primo contatto con un caso. Compilata dal patologo richiedente, fornisce dati fondamentali per rintracciare il relativo fascicolo.

Spostai lo sguardo sulla colonna di destra. Numero LML, cioè del Laboratoire de Médecine Légale. Numero di obitorio. Numero d'incidente, assegnato dalla polizia. Asettico e funzionale. Il cadavere viene etichettato e archiviato fino a che la macchina della giustizia non ha fatto il suo corso.

Passai alla colonna di destra. Patologo. Coroner. Funzionario incaricato delle indagini. La morte violenta è l'intrusione finale, e quelli che la indagano sono gli ultimi voyeur. Pur essendo parte dell'ingranaggio, sono sempre a disagio di fronte all'indifferenza con cui il sistema tratta le persone morte e le indagini sulle circostanze del decesso. Mi rendo conto che un certo distacco è necessario per mantenere l'equilibrio emotivo, eppure ho sempre la sensazione che la vittima meriti un atteggiamento più partecipe, più personale.

Esaminai il riassunto dei fatti di cui eravamo a conoscenza. Differiva dal resoconto telefonico di LaManche solo in un punto: fino a quel momento erano stati rinvenuti duecentoquindici porzioni di carne e di ossa, di cui la più grande pesava cinque chili e mezzo.

Ignorai gli altri due moduli e i messaggi telefonici e andai a cercare il direttore.

Non avevo quasi mai visto Pierre LaManche senza il camice bianco o la tenuta verde da chirurgo. E non avrei potuto immaginarlo ridere o indossare qualcosa di vivace.

Lui era sobrio e cortese, rigorosamente in tweed. Ed era il miglior patologo forense che avessi mai conosciuto.

Lo vidi attraverso il rettangolo di vetro accanto alla porta del suo ufficio. Era curvo sulla scrivania, davanti a una confusione di fogli di carta, giornali, libri e a una pila di fascicoli colorati. Quando bussai, alzò lo sguardo e mi fece cenno di entrare.

L'ufficio, come il suo occupante, profumava lievemente di tabacco da pipa. LaManche aveva una camminata così silenziosa che spesso quell'aroma era il primo indizio della sua presenza.

«Temperance.» Il direttore accentava sempre l'ultima sillaba e, pronunciato da lui, il mio nome faceva rima con France. «Le sono davvero grato per essere rientrata così presto. Ma la prego, si accomodi.»

Parlava un francese impeccabile, senza ombra di contrazioni o di inflessioni dialettali.

Ci sedemmo al tavolino di fronte alla sua scrivania. Sul ripiano notai diverse buste marroni piuttosto grandi.

«So che ormai oggi è tardi per procedere alle analisi, ma forse potremmo vederci domani?»

Il viso lungo di LaManche era solcato da profonde rughe verticali. Quando sollevò le sopracciglia per formulare la richiesta, i solchi che correvano paralleli agli occhi si sollevarono verso il centro della fronte.

«Sì. Certo.»

«Forse è il caso che inizi a esaminare le radiografie.»

Mi indicò le buste, poi si spostò alla scrivania.

«I due biker che trasportavano la bomba verso la sede dei Vipers sono stati polverizzati, e i loro resti si sono sparpagliati su una zona molto vasta. Gran parte di ciò che è stato rinvenuto dalla squadra addetta al recupero si trovava appiccicato ai muri, o impigliato su rami e cespugli. Per il momento il brandello più grosso è stato ritrovato sul tetto della sede del motoclub. Una porzione di torace è parzialmente tatuata e questo sarà di grande aiuto per l'identificazione.»

«E quello che guidava?»

«È morto questa mattina all'ospedale.»

«La persona che ha sparato?»

«È stato fermato, ma questa gente non è mai di nessun aiuto. Piuttosto di fornire qualche elemento alla polizia si farebbe chiudere in carcere.»

«Non ha fornito neppure informazioni sulla banda rivale?»

«Se parla è un uomo morto, o almeno è molto probabile che lo sia.»

«E le impronte o la documentazione odontoiatrica?»

«Niente.»

LaManche si passò una mano sulla faccia, fece spallucce e intrecciò le dita in grembo.

«Temo che non riusciremo mai a identificare tutti i tessuti.»

«Non possiamo utilizzare il DNA?»

«Ha mai sentito parlare di Ronald e Donald Vaillancourt?»

Scossi la testa.

«I fratelli Vaillancourt, altrimenti detti Cric e Croc. A tutt'oggi membri effettivi degli Heathens. Qualche anno fa uno dei due era stato implicato nell'esecuzione di Claude Dubé, soprannominato Coltello. Non ricordo quale.»

«La polizia crede che le vittime siano i due Vaillancourt?»

Un paio di occhi malinconici incrociarono i miei.

«Cric e Croc sono gemelli omozigoti.»

 

Alle sette di quella stessa sera avevo già esaminato tutto, tranne il video. Con una lente di ingrandimento avevo visionato una marea di fotografie che mostravano centinaia di frammenti ossei e masse insanguinate di varie forme e misure. Scatto dopo scatto, le frecce indicavano brandelli rossi e gialli confusi tra l'erba, impigliati sui rami e appiattiti contro asfalto, vetri rotti, coperture impermeabili e lamiere ondulate.

I resti erano arrivati in obitorio, chiusi in una serie di buste sigillate con cerniera, in grandi sacchi di plastica nera. Ogni busta era numerata e conteneva un insieme di porzioni corporee, terra, tessuto, metallo e detriti non identificabili. Le fotografie dell'autopsia spaziavano dai sacchi ancora chiusi, alle buste di plastica raggruppate sui tavoli operatori, alle panoramiche del contenuto delle buste suddiviso per categorie.

Nelle ultime immagini i brandelli erano ordinati per file, come tagli di carne nella vetrina di un macellaio. Notai alcuni frammenti di cranio, uno di tibia, la testa di un femore, una porzione di cuoio capelluto con un orecchio destro completo. Alcune foto ravvicinate rivelavano i margini frastagliati delle ossa frantumate, altre mostravano capelli, fibre, brandelli di stoffa aderenti alla pelle. Il tatuaggio cui LaManche aveva accennato era chiaramente visibile su una porzione di pelle. Raffigurava tre teschi e tre paia di mani scheletriche che coprivano occhi, bocca, orecchie. L'ironia era impagabile: quel tizio non avrebbe visto, udito, detto niente.

Dopo aver analizzato le foto e le radiografie, finii per essere d'accordo con LaManche. Le une e le altre rivelavano la presenza di frammenti di tessuto osseo, e questo mi avrebbe permesso di determinare l'origine anatomica di alcuni tessuti. Ma attribuire quel guazzabuglio di carne a un fratello o all'altro sarebbe stato davvero difficile.

Assegnare un'identità distinta a corpi in cattive condizioni e mescolati tra loro è sempre un compito arduo, soprattutto se i resti sono molto danneggiati o incompleti. Ma l'operazione è infinitamente più complessa se i cadaveri sono dello stesso genere, età e razza. Una volta mi ci erano volute settimane per esaminare le ossa e la carne in decomposizione di sette "prostituti" dissotterrati da una buca sotto la casa del loro assassino. Erano tutti bianchi e adolescenti. La sequenza del DNA era stata preziosissima per determinare chi fosse uno e chi fosse l'altro.

In questo caso, però, non avrebbe funzionato. Se le vittime erano gemelli omozigoti, si erano sviluppati dallo stesso ovulo e quindi il loro DNA era identico.

LaManche aveva ragione. Non sembrava molto probabile che sarei riuscita a suddividere i frammenti in due corpi distinti e a dare loro un nome.

 

Rientrata a casa, la spia della segreteria telefonica mi avvertì che avevo ricevuto un messaggio. Posai il mio sushi da asporto sul tavolo, stappai una Diet Coke e premetti il pulsante.

Mio nipote Kit e suo padre stavano viaggiando in camper dal Texas al Vermont. Venivano al nord per prendere all'amo tutto quello che poteva abboccare nelle acque interne in primavera. E poiché il mio gatto preferisce lo spazio e il comfort di una casetta motorizzata all'efficienza dei viaggi aerei, Kit e Howie mi avevano promesso di prelevarlo dalla mia casa di Charlotte e di portarlo fino a Montréal. Il messaggio diceva che sarebbero arrivati il giorno successivo.

Mangiai un maki, un rotolino di riso e alga. Stavo per lanciarmi sul secondo, quando trillò il campanello della porta. Sorpresa, andai a controllare sullo schermo di sicurezza.

Sul monitor del videocitofono comparve Andrew Ryan, appoggiato al muro del corridoio esterno. Indossava un paio di jeans scoloriti, scarpe da tennis, T-shirt nera e bomber. Un metro e ottantacinque, occhi azzurri e viso squadrato: un incrocio tra Paul Newman e Indiana Jones.

Io invece sembravo una che ha appena infilato due dita nella presa elettrica.

Fantastico.

Sospirai e aprii la porta.

«Hey, Ryan. Che cosa succede?»

«Ho visto la luce e ho pensato che forse eri tornata prima.»

Mi lanciò un'occhiata indagatrice.

«Brutta giornata?»

«L'ho passata metà in viaggio e metà ad analizzare brandelli di carne» risposi sulla difensiva. Cercai di sistemarmi i capelli. «Entri?»

«Non posso fermarmi.» Mi accorsi che portava pistola e cercapersone. «Volevo solo sapere che piani hai per domani sera.»

«Domani passerò la giornata con le vittime di una bomba, perciò credo che sarò uno straccio.»

«Be', dovrai pur mangiare qualcosa, no?»

«Già, dovrò mangiare qualcosa.»

Mi posò una mano sulla spalla e con l'altra mi attorcigliò una ciocca di capelli.

«Se sei stanca possiamo lasciar perdere la cena e rilassarci un po'» suggerì a voce bassa.

«Hmm.»

«Allarghiamo i nostri orizzonti?»

Mi scostò i capelli e mi sfiorò l'orecchio con le labbra.

Oh, sì.

«Certo, Ryan. Se vuoi mi metto anche il perizoma.»

«Certe iniziative sono decisamente da incoraggiare.»

Gli lanciai uno sguardo di approvazione. «Che ne dici di un ristorante cinese?»

«Il cinese va benissimo» rispose lui, e mi sollevò i capelli raccogliendoli in uno chignon. Poi li fece ricadere e mi strinse le braccia intorno alla schiena. Prima che potessi protestare mi attirò a sé e mi baciò, solleticandomi gli angoli della bocca con la lingua.

Le sue labbra erano morbide, il petto premeva forte contro il mio. Cercai di allontanarlo ma sapevo che non era ciò che volevo. Sospirando, mi rilassai e lasciai che il mio corpo si fondesse con il suo. Gli orrori della giornata si dissolsero e mi sentii al sicuro dalla follia delle bombe e dei bambini assassinati.

Alla fine dovemmo respirare.

«Sei sicuro che non vuoi entrare?» gli domandai, facendo un passo indietro e spalancando la porta. Avevo le gambe di gelatina.

Lui controllò l'orologio.

«Sono sicuro che una mezz'oretta di ritardo non sarà un problema.»

Ma in quel preciso istante il suo cercapersone trillò. Ryan verificò il numero.

«Merda.»

Merda.

Riagganciò l'aggeggio elettronico alla cintura.

«Mi spiace» disse, sorridendo imbarazzato. «Lo sai, vero, che avrei preferito...»

«Vai.» Sorrisi e gli appoggiai le mani aperte sul petto spingendolo delicatamente fuori dalla porta. «Ci vediamo domani sera. Sette e mezzo.»

«Pensami» mi disse, poi si voltò e scomparve in fondo al corridoio.

Io tornai al mio sushi e cominciai davvero a pensare ad Andrew Ryan.

Ryan è un investigatore della Omicidi con cui di tanto in tanto collaboro nelle indagini. Nonostante me lo domandasse da anni, solo di recente avevo accettato di uscire ufficialmente con lui. Con un po' di autopersuasione, avevo finito per accettare il suo punto di vista, secondo cui, tecnicamente, non lavoravamo insieme e quindi la mia regola "niente storie con i colleghi" con lui non valeva. A meno che io non volessi farla valere a tutti i costi.

In ogni caso la cosa mi rendeva piuttosto nervosa. Dopo vent'anni di matrimonio e alcuni da single, stringere una nuova relazione non mi era facilissimo. La compagnia di Ryan, però, mi piaceva e così avevo deciso di tentare. Di "vederlo", come avrebbe detto mia sorella.

Oh, Dio. Ricominciare a vedere qualcuno.

Dovevo ammettere che lo trovavo sexy da morire. Come gran parte delle altre donne, del resto. Ovunque andassimo, tutti gli sguardi femminili erano puntati su di lui. Nessun dubbio che le proprietarie si chiedessero chissà cosa.

Anch'io mi chiedevo delle cose. Ma per il momento la nave era ancora in porto, i motori bene oliati e pronti a partire. La gambe di gelatina me lo avevano appena riconfermato. Andare a cena fuori era decisamente un'idea migliore.

Mentre sparecchiavo la tavola, squillò il telefono.

«Mon Dieu, sei tornata.» Voce roca e profonda; inglese dal forte accento francese.

«Ciao Isabelle. Che cosa succede?»

Conoscevo Isabelle Caillé solo da due anni, ma eravamo buone amiche. Ci eravamo incontrate in un periodo difficile della mia vita. Nello spazio di un'estate desolata ero stata il bersaglio di uno psicopatico violento, la mia migliore amica era stata assassinata e avevo dovuto affrontare la realtà di un matrimonio fallito. Così, in uno slancio di autoindulgenza, avevo prenotato una vacanza in un Club Med ed ero volata verso interminabili partite di tennis e abbuffate a ripetizione.

Avevo conosciuto Isabelle sul volo per Nassau, poi al villaggio ci avevano accoppiate per giocare un doppio. Dopo la vittoria, avevamo scoperto di essere lì per ragioni simili e avevamo trascorso una piacevole settimana insieme. Da allora eravamo rimaste amiche.

«Non ti aspettavo fino alla prossima settimana. Volevo solo lasciarti un messaggio per chiederti di vederci, ma visto che sei a casa ne approfitto per invitarti a cena domani!»

Le dissi di Ryan.

«Quell'uomo vale la pena, Tempe. Se per caso ti stanchi del tuo chevalier, mandalo da me, così gli do di nuovo qualcosa a cui pensare. Come mai sei tornata prima?»

Le spiegai della bomba.

«Ah, oui. L'ho letto su La Presse. È davvero così raccapricciante?»

«Diciamo che le vittime non sono in perfetta forma.»

«Les motards. Se vuoi sapere come la penso, questi biker irregolari hanno quel che si meritano.»

Isabelle aveva opinioni molto precise su tutto, e quasi mai si tratteneva dall'esprimerle.

«La polizia dovrebbe lasciare che questi delinquenti si sterminassero a vicenda. Così non dovremmo più vedere in giro i loro corpi sudici e coperti di tatuaggi.»

«Hmm.»

«Insomma, non è così grave come se fossero dei bambini a morire, no?»

«Già» concordai.

Il mattino seguente Emily Anne Toussaint sarebbe morta mentre andava a una lezione di danza.

 

4

 

Howard e Kit erano arrivati alle sette, avevano lasciato Birdie ed erano ripartiti. Il mio gatto mi aveva ignorata e si stava dedicando a un'intensa ricerca di tracce canine in giro per l'appartamento. Alle otto uscii di casa per andare in istituto a riprendere il lavoro sulle vittime della bomba.

Emily Anne sarebbe arrivata poco dopo mezzogiorno.

Avevo bisogno di molto spazio, così scelsi la sala autopsie più grande. Spinsi la lettiga con i resti delle vittime della bomba al centro della stanza e cominciai la ricomposizione dei cadaveri su due diversi tavoli operatori. Essendo sabato, la sala era tutta per me.

Dapprima identificai e suddivisi tutti i frammenti ossei visibili. Poi, aiutandomi con le radiografie, presi le porzioni contenenti tessuto osseo e le sezionai in cerca di segni significativi. Ogni volta che trovavo porzioni o frammenti identici, li suddividevo fra i due tavoli. Due tubercoli pubici sinistri, o due processi mastoidei, o due condili femorali significavano due individui diversi.

Su alcuni frammenti di ossa lunghe notai le tracce di un problema di crescita occorso nel periodo infantile. Quando la salute è compromessa, un bambino smette di crescere e lo sviluppo dello scheletro si arresta. Simili interruzioni in genere vengono causate da una malattia, o da periodi di alimentazione inadeguata. Quando la situazione migliora, la crescita riprende, ma le interruzioni lasciano segni permanenti.

Le radiografie mostravano linee opache su numerosi frammenti di ossa del braccio e della gamba. Quelle striature disposte trasversalmente alle diafisi indicavano i perìodi di arresto della crescita. Deposi su un tavolo i tessuti che contenevano frammenti segnati e su un altro quelli con frammenti normali.

Uno dei brandelli di carne conteneva diverse ossa della mano. Dopo averle estratte notai due ossa metacarpali con diafisi irregolari. Sulle radiografie le zone rilevate mostravano una densità maggiore e questo indicava che in passato una delle vittime si era rotta le dita. Misi da parte la porzione di carne

I frammenti che non contenevano tessuto osseo erano un problema differente. Cominciai a studiare i brandelli di stoffa a cui aderivano lavorando a ritroso: partendo dai tessuti già suddivisi, associavo fili e fibre presi da un tavolo o dall'altro ai frammenti ancora sulla lettiga. Mi sembrava di aver individuato la trama di un paio di pantaloni da lavoro, di una tela jeans e del cotone bianco. In seguito, gli esperti della sezione peli e fibre avrebbero effettuato un'analisi completa per confermare o meno le mie conclusioni.

Dopo la pausa pranzo e la discussione con LaManche, tornai alle vittime della bomba. Alle cinque e un quarto avevo già suddiviso circa due terzi dei resti. Ma senza DNA non avevo molte speranze di assegnare i resti rimanenti a un individuo specifico. Avevo fatto tutto ciò che potevo.

E mi ero anche data un obiettivo personale.

Mentre lavoravo alle porzioni corporee dei Vaillancourt avevo trovato molto difficile simpatizzare con le persone che stavo ricostruendo. Anzi, per dirla tutta, doverlo fare mi aveva infastidito. Quei due uomini erano saltati in aria mentre si preparavano a far saltare in aria qualcun altro. Una rozza forma di giustizia aveva prevalso e io, più che dispiaciuta, ero perplessa.

Ma Emily Anne era un'altra cosa. La bambina giaceva sul tavolo operatorio di LaManche perché stava andando al suo corso di danza. Quella realtà non era accettabile. La morte di una bambina innocente non poteva essere liquidata come una casualità accidentale in una guerra tra maniaci.

I Vipers ammazzavano gli Heathens e gli Outlaws assassinavano i Bandidos. O i Pagans. O gli Hells Angels. Ma non dovevano ammazzare un innocente. Giurai a me stessa che avrei fatto ricorso a tutte le conoscenze forensi in mio possesso, che avrei impiegato tutte le ore necessarie a sviluppare una prova che potesse identificare quegli psicopatici con manie omicide. I bambini avevano il diritto di camminare per la strada senza essere stroncati da una pallottola.

Riposi sulla lettiga i resti suddivisi e li riportai nelle celle frigorifere. Quindi mi lavai e mi cambiai. L'ascensore mi portò ai piani superiori dove andai a cercare il mio capo.

«Voglio lavorare a questo caso» dissi con voce ferma e tranquilla. «Voglio inchiodare questi bastardi che assassinano i bambini.»

Un paio di occhi anziani e velati di stanchezza mi osservarono a lungo. Avevamo parlato di Emily Anne Toussaint. E anche di un altro bambino.

Olivier Fontaine stava andando all'allenamento di hockey ed era passato casualmente accanto a una Jeep Cherokee, proprio nel momento in cui il guidatore girava la chiavetta di avviamento. La bomba era esplosa con una forza sufficiente a investire Olivier con una scarica di schegge, e il bambino era morto sul colpo. Quel giorno era il suo dodicesimo compleanno.

Il caso Fontaine mi era tornato alla memoria solo vedendo Emily Anne Toussaint. L'incidente era avvenuto nel dicembre del 1995 sulla West Island e ne erano responsabili gli Hells Angels e i Rock Machine. La morte di Olivier aveva sollevato un'ondata di sdegno che aveva portato alla creazione dell'Operazione Carcajou, la task force multigiurisdizionale destinata a indagare i crimini commessi dalle bande di biker.

«Temperance, non...»

«Farò tutto il necessario. Lavorerò nel tempo libero tra un caso e l'altro. Se l'Operazione Carcajou è come tutte le altre, probabilmente saranno a corto di personale. Io potrei immettere dati, o fare ricerche sulla casistica passata. Potrei fungere da collegamento tra le varie agenzie, magari stabilire collegamenti con le unità investigative degli Stati Uniti. Potrei anche...»

«Temperance, calma.» LaManche alzò la mano aperta. «Questa decisione non spetta a me. Parlerò con Monsieur Patineau.»

Stéphane Patineau era il direttore responsabile del Laboratoire de Sciences Judiciaires. Era lui ad avere l'ultima parola riguardo le attività dell'Istituto di medicina legale e dei laboratori scientifici.

«Farò in modo che la partecipazione all'Operazione Carcajou non interferisca con il mio lavoro normale.»

«Questo lo so. Prometto che parlerò con il direttore già lunedì mattina. Adesso vada a casa. E bonne fin de semaine.»

Anch'io gli augurai buon fine settimana.

In Québec gli inverni si concludono in modo molto diverso rispetto a quanto accade sui Piedmont della Carolina. Dalle mie parti la primavera arriva poco alla volta; tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, i fiori cominciano a sbocciare e l'aria si fa tiepida, ad annunciare l'estate ormai prossima.

I québécois invece aspettano sei settimane o più per ripiantare le aiuole dei giardini e rinnovare i vasi sui davanzali delle finestre. Aprile è un mese per lo più grigio e freddo, e le strade e i marciapiedi scintillano ancora di neve e di ghiaccio sciolti. Ma quando la primavera finalmente fa la sua comparsa, è uno spettacolo da togliere il fiato. La stagione letteralmente esplode, e le persone rispondono con impareggiabile entusiasmo.

Quel giorno allo spettacolo primaverile mancavano ancora diverse settimane. Il cielo era cupo e cadeva una pioggerella sottile. Chiusi la cerniera del giubbotto, abbassai la testa e corsi verso la mia automobile. Il giornale radio iniziò mentre stavo entrando nel sottopassaggio Ville-Marie. La notizia d'apertura riguardava l'assassinio Toussaint. Quella sera Emily Anne avrebbe dovuto ricevere un premio per un concorso di scrittura organizzato dalla sua scuola. Il titolo del tema con cui aveva vinto era Lasciate vivere i bambini.

Spensi l'autoradio.

Pensai ai progetti per la mia serata e fui lieta di ricordare che qualcuno mi avrebbe sollevato il morale. Mi ripromisi di non parlare di lavoro con Ryan.

Venti minuti dopo aprii la porta del mio appartamento accolta dallo squillo del telefono. Lanciai un'occhiata all'orologio. Le sette meno dieci. L'appuntamento con Ryan era per le sette e mezzo e prima volevo farmi una doccia.

Attraversai il soggiorno e gettai il giubbotto sul divano. La segreterìa telefonica si avviò e udii la mia voce sollecitare un breve messaggio. Birdie si fece vedere nel momento esatto in cui Isabelle cominciò a parlare.

«Tempe, se sei in casa rispondi. C'est importante.» Pausa. «Merde.»

Non avevo molta voglia di parlare ma qualcosa nella sua voce mi convinse a sollevare la cornetta.

«Ciao, Isa...»

«Accendi il televisore. CBC.»

«So già tutto della piccola Toussaint. Ero in istituto.»

«Accendi!»

Presi il telecomando e mi sintonizzai sul canale della CBC.

Poi ascoltai inorridita.

 

5

 

«... E tenente Ryan era sotto indagine ormai da diversi mesi. È stato accusato di possesso di merci rubate e di traffico e possesso di sostanze stupefacenti. L'arresto gli è stato notificato oggi pomeriggio davanti alla sua casa, nel quartiere del Vieux-Port, e l'investigatore ha seguito gli agenti della CUM senza opporre resistenza. Per tutta la durata dell'inchiesta sarà sollevato dai suoi incarichi con sospensione dello stipendio.

«E ora passiamo alle notizie finanziarie. La proposta fusione tra...»

 

«Tempe!»

L'urlo di Isabelle mi riportò alla realtà. Portai la cornetta all'orecchio.

«C'est lui, n'est-ce pas? Andrew Ryan, Crimes contre la personne, Sûreté du Québec?»

«Deve esserci un errore.»

Mentre pronunciavo quelle parole, spostai lo sguardo sulla spia della segreteria telefonica. Ryan non aveva chiamato.

«Adesso devo andare. Sarà qui a momenti.»

«Tempe, Ryan è in galera.»

«Devo andare. Ti richiamo domani.»

Riagganciai e composi il numero dell'appartamento di Ryan. Nessuna risposta. Lo chiamai sul cercapersone e digitai il mio numero di telefono. Nessuna risposta. Guardai Birdie. Non aveva spiegazioni da darmi.

Alle nove capii che non sarebbe venuto. Lo avevo chiamato a casa sette volte e avevo telefonato al suo collega Jean Bertrand ottenendo lo stesso risultato: nessuna risposta.

Cercai di correggere i compiti d'esame che mi ero portata dalla University of North Carolina di Charlotte, ma non riuscii a trovare la concentrazione necessaria. Continuavo a pensare a Ryan e fissavo lo stesso compito per interi quarti d'ora senza recepire nulla di quanto lo studente aveva scritto. Birdie mi si era accoccolato in grembo, ma era una magra consolazione.

Non poteva essere vero. Non potevo crederci. Non volevo crederci.

Alle dieci feci un lungo bagno caldo, poi scongelai una porzione di spaghetti nel microonde e la portai in soggiorno. Scelsi un CD che speravo potesse risollevarmi il morale e lo inserii nel lettore. Mi misi a leggere. Di nuovo Birdie si raggomitolò accanto a me.

Niente da fare. Era come se il libro di Pat Conroy fosse stampato in geroglifici.

Avevo colto un'immagine di Ryan sullo schermo del televisore: era stretto fra due agenti in uniforme, i polsi ammanettati dietro la schiena. Lo avevo visto piegare le testa per entrare nella volante e sedersi sul sedile posteriore. E ancora non riuscivo ad accettare l'idea.

Andrew Ryan spacciava droga?

Come potevo aver commesso un errore così grossolano? Ryan spacciava fin da quando lo avevo conosciuto? C'era un lato oscuro nella sua personalità che non avevo colto? O era tutto un terribile sbaglio?

Doveva essere uno sbaglio.

Gli spaghetti si erano raffreddati sul tavolino. Non avevo voglia di mangiare. Non avevo voglia di ascoltare musica. I Big Bad Voodoo Daddy e la band di Johnny Favourite suonavano uno swing che avrebbe trascinato nel ballo un intero gulag, ma non riuscirono a risollevare il mio spirito.

Una pioggia insistente tamburellava sui vetri. La primavera della mia Carolina sembrava più che mai lontana.

Arrotolai una forchettata di spaghetti e l'odore di cibo mi rivoltò lo stomaco.

Andrew Ryan era un criminale.

Emily Anne Toussaint era morta.

Mia figlia era in mezzo all'oceano Indiano.

Quando mi sento giù, mi capita spesso di telefonare a mia figlia, ma negli ultimi mesi non era stato molto facile. Stava frequentando il semestre primaverile dell'università a bordo della S.S. Universe Explorer e la nave non sarebbe rientrata prima di cinque settimane.

Portai un bicchiere di latte in camera da letto e scostai le tende dai vetri della finestra per guardare fuori. In testa girandole di pensieri caotici come il traffico dell'ora di punta.

Le sagome nere di alberi e cespugli filtravano attraverso la foschia scura e scintillante di pioggia. Oltre, i fari delle auto e le luci al neon del dépanneur più vicino. Di tanto in tanto passava un'automobile e un pedone affrettava il passo facendo ticchettare le scarpe sul marciapiede.

La solita routine. La solita normalità. Un'altra serata piovosa di aprile.

Lasciai ricadere le tende e andai a letto, convinta che il mio mondo non sarebbe tornato alla normalità ancora per molto tempo.

 

Trascorsi il giorno successivo occupata in mille attività. Bagagli. Pulizie. Spesa. Evitai radio e televisione e mi limitai a una breve occhiata al giornale.

La Gazette apriva con l'assassinio Toussaint: SANGUINOSA SPARATORIA: MUORE UNA BAMBINA. Accanto al titolo, un primo piano di Emily Anne. I capelli erano pettinati in due trecce fermate da larghi nastri rosa. Sul suo sorriso si apriva qualche finestrella che la dentizione permanente non avrebbe mai avuto la possibilità di chiudere.

L'immagine della madre di Anne era altrettanto straziante. Il fotografo aveva immortalato una snella donna nera con la testa piegata all'indietro e la bocca spalancata in un urlo agonizzante. La signora Toussaint aveva le ginocchia piegate, le mani chiuse sotto il mento. Due robuste donne nere la sostenevano. Dall'immagine sgranata filtrava un indicibile dolore.

L'articolo forniva pochi particolari. Emily Anne aveva due sorelline più piccole, Cynthia Louise di sei anni e Hanna Rose di quattro. La signora Toussaint lavorava da un fornaio. Il marito era morto per un incidente sul lavoro tre anni prima. Originari delle Barbados, i Toussaint erano emigrati a Montréal in cerca di una vita migliore per le loro figliolette.

La messa funebre si sarebbe celebrata il giovedì alle otto del mattino nella chiesa cattolica di Our Lady of the Angels, e la sepoltura avrebbe avuto luogo nel cimitero di Notre-Dame-des-Neiges.

Rifiutai di leggere o ascoltare notizie che riguardassero Ryan. Volevo sentirle direttamente da lui. Per l'intera mattinata continuai a lasciargli messaggi in segreteria telefonica, ma non ricevetti risposta. Il collega di Ryan, Jean Bertrand, era altrettanto irreperibile. Non mi venne in mente altro da fare. Ero certa che nessuno alla CUM o alla SQ mi avrebbe parlato della situazione, e parenti o amici di Ryan non ne conoscevo.

Dopo una seduta in palestra, mi preparai una cena a base di petti di pollo in salsa di prugne, carote glassate con funghi e riso allo zafferano. Il mio compagno felino senza alcun dubbio avrebbe preferito del pesce.

 

Il mattino di lunedì mi alzai presto, andai in auto fino al Laboratoire e cercai subito LaManche. Era in riunione con tre investigatori ma mi disse di andare a parlare con Stéphane Patineau appena possibile.

Senza perdere tempo, percorsi il corridoio su cui si affacciavano gli uffici del personale medico-legale e i laboratori di antropologia, odontologia, istologia e patologia; poi superai la Section de Documents sulla sinistra e la Section d'Imagerie sulla destra e continuai fino alla reception principale, dove svoltai a sinistra ed entrai nell'ala riservata al personale amministrativo del'Laboratoire de Sciences Judiciaires, detto anche LSJ. L'ufficio del direttore era in fondo al corridoio.

Patineau era al telefono ma mi fece cenno di entrare. Mi accomodai su una sedia di fronte alla sua scrivania.

Quando ebbe finito si sporse in avanti e mi guardò bene in faccia. Aveva occhi molto scuri, incorniciati da arcate pronunciate e sopracciglia folte. Stéphane Patineau era un uomo che non avrebbe mai conosciuto la calvizie.

«Il dottor LaManche mi dice che lei vorrebbe partecipare alle indagini sul caso Toussaint.»

«Credo che potrei essere utile all'Operazione Carcajou. Mi sono già occupata di diversi casi di biker. Al momento sto classificando i resti delle vittime della bomba esplosa davanti alla sede dei Vipers. Questo tipo di lavoro non mi è nuovo. Potrei...»

Mi fermò con un gesto della mano.

«Il direttore dell'Operazione Carcajou mi ha già chiesto se posso assegnare a uno dei miei collaboratori il compito di mantenere i collegamenti tra noi e la sua unità. Vista l'escalation di questa guerra tra bande, vorrebbe essere sicuro che il personale medico-legale e i suoi investigatori siano sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda e nel medesimo tempo.»

Non lo lasciai proseguire.

«Posso farlo io.»

«Tenga conto che ormai siamo in primavera. Quando il fiume si sarà sgelato e riprenderanno le gite in campagna, il suo lavoro è destinato ad aumentare.»

Era vero. Quando il clima si faceva più mite i cadaveri galleggianti e in decomposizione dei morti dell'inverno venivano alla luce, e il mio lavoro regolarmente aumentava.

«Farò degli straordinari.»

«Avevo intenzione di affidare l'incarico a Réal Marchand, ma non ho niente in contrario a farle fare un tentativo. Anche perché non sarà un lavoro a tempo pieno.»

Prese un foglio dalla scrivania e me lo passò.

«Alle tre di oggi pomeriggio ci sarà una riunione. Li chiamo per avvertirli che ci sarà anche lei.»

«La ringrazio. Non si pentirà di avermi affidato quest'incarico.»

Patineau si alzò e mi accompagnò alla porta.

«Ci sono novità sui fratelli Vaillancourt?»

«Lo sapremo quando riceveremo la documentazione medica. Si spera entro oggi.»

«So che farà del suo meglio, Tempe» mi disse, sollevando i due pollici in segno di incoraggiamento.

Risposi con lo stesso gesto, poi mi congedò e si ritirò nel suo ufficio.

Oltre a essere un ottimo amministratore, Patineau riempiva le camicie in modo molto più accattivante di molti culturisti.

 

Il lunedì è una giornata dura per quasi tutti i coroner e i medici legali, e quel lunedì non fece eccezione. Mentre LaManche illustrava i casi, pensai che la riunione non sarebbe finita mai.

Una bambina era morta in ospedale e la madre sosteneva di averla solo scossa un po'. Ma la piccola aveva tre anni e quindi aveva superato l'età della cosiddetta "sindrome del bambino scosso". Inoltre una contusione rivelava che aveva sbattuto violentemente la testa contro una superficie dura.

Un paranoico schizofrenico di trentadue anni era stato trovato con lo stomaco aperto e le viscere sparse sulla moquette della sua camera da letto. I parenti sostenevano che si era procurato la ferita da solo.

Due camion si erano scontrati fuori Saint-Hyacinthe. Entrambi i conducenti erano carbonizzati al punto da rendere impossibile l'identificazione.

Un marinaio russo di ventisette anni era stato ritrovato esanime nella sua cabina. La morte era stata accertata dal capitano della nave, ma poiché era sopravvenuta in acque territoriali canadesi, il corpo era stato portato sulla terraferma per consentire l'autopsia.

Una donna di quarantaquattro anni era stata massacrata di botte nel suo appartamento. Il marito era ricercato.

La documentazione medica per i fratelli Vaillancourt era arrivata. Insieme a una busta di fotografie.

Mentre guardavamo le immagini, ci rendemmo conto che almeno uno dei due gemelli si trovava sicuramente da noi, nel seminterrato: in una foto, Ronald Vaillancourt a torso nudo mostrava i muscoli possenti e i tre teschi "non vedo, non sento, non parlo" gli decoravano il pettorale destro.

LaManche assegnò ai patologi un'autopsia a testa e mi passò la documentazione dei Vaillancourt.

 

Alle dieci e quarantacinque sapevo già quale dei due gemelli si era rotto le dita. Nel 1993 Ronald Vaillancourt, detto Cric, si era fratturato il medio e l'indice della mano sinistra durante un rissa in un bar. Le radiografie confermavano che la frattura era localizzata nello stesso punto delle ossa metacarpali in cui avevo individuato delle anomalie. E confermavano altresì che le ossa del braccio di Cric non presentavano linee di arresto della crescita.

Due mesi dopo Cric era finito al pronto soccorso per un incidente in moto, questa volta con un trauma all'anca e al femore. Il quadro radiologico era il medesimo: le ossa della gamba di Ronald erano normali. Sempre dalla documentazione medica, appresi che nel 1995 era stato scaraventato fuori da un'automobile in corsa e pugnalato durante un tafferuglio, mentre nel 1997 era stato massacrato di botte da una banda rivale. Solo il fascicolo delle radiografie era alto due dita.

Sapevo inoltre quale dei due non era stato un bambino in perfetta salute. Donald Vaillancourt, detto Croc, era stato ricoverato diverse volte durante l'infanzia. Quando era molto piccolo aveva avuto lunghi periodi di nausea e vomito di cui non era mai stata diagnosticata la causa. A sei anni aveva rischiato di morire di scarlattina. A undici aveva avuto la gastroenterite.

Naturalmente anche Croc portava i segni delle sue scaramucce. Il suo dossier, come quello del fratello, conteneva uno spesso fascicolo di radiografie che testimoniava le numerose visite al pronto soccorso. Frattura al naso e allo zigomo. Ferita da coltello al petto. Colpo in testa inferto con una bottiglia.

Mentre chiudevo il dossier, sorrisi all'ironia della sorte. La vita turbolenta dei due gemelli avrebbe fornito la chiave per identificare i loro corpi. Le molte disavventure, infatti, avevano inciso sui loro scheletri una sorta di mappa indelebile.

Armata di documentazione medica, tornai nel seminterrato e ripresi le operazioni di identificazione. Iniziai dal segmento di torace tatuato e dai frammenti a esso assodati. Quello era Ronald e a lui dovevo assegnare anche la mano fratturata e tutti i tessuti contenenti ossa lunghe normali.

Le ossa degli arti con linee di arresto della crescita appartenevano a Donald, quelle senza al fratello.

Dopodiché mostrai a Lisa, uno dei tecnici di autopsia, come radiografare i frammenti che ancora contenevano tessuto osseo nella stessa posizione che avevano sulla documentazione dell'ospedale. Questo mi avrebbe permesso di confrontare la forma e la struttura interna.

Dato che il laboratorio di radiologia aveva molto lavoro, lavorai con lei durante la pausa pranzo. Lasciammo il laboratorio all'una e mezzo, mentre gli altri tecnici e i patologi stavano rientrando. Lisa mi promise di terminare il lavoro non appena la macchina fosse stata disponibile e io tornai velocemente di sopra per cambiarmi.

Il quartier generale dell'Operazione Carcajou si trovava in un moderno edificio a due piani affacciato sul San Lorenzo, proprio di fronte a Vieux-Montréal, il primo nucleo della città. Il resto della struttura era occupato dalla polizia portuale e dagli uffici amministrativi delle autorità marittime.

Parcheggiai sul lungofiume. Alla mia sinistra avevo il Pont Jacques Cartier che si inarcava sull'Île-Notre-Dame, alla mia destra il più piccolo Pont Victoria. Enormi blocchi di ghiaccio galleggiavano sulle acque grigie del fiume.

Più avanti notai Habitat '67, una torre geometrica costruita in occasione dell'Expo e in seguito convertita in spazio residenziale. La vista dell'edificio mi strinse il cuore. Ryan abitava in quell'alveare.

Scacciai il pensiero dalla mente, presi il giubbotto e uscii dall'auto. Il cielo si stava aprendo ma la giornata era ancora cupa e umida. La brezza che veniva dal fiume, intrisa dell'odore di gasolio e di acqua ghiacciata, mi faceva svolazzare i vestiti.

Un'ampia scalinata portava al secondo piano, quartier generale dell'Operazione Carcajou. Dietro le porte a vetri dominava un ghiottone imbalsamato, l'animale da cui l'edificio prendeva nome. Nella sala centrale un gran numero di uomini e donne si davano da fare dietro le rispettive scrivanie; sulla testa di ognuno un cartello indicava a caratteri cubitali il numero del loro interno. Alle pareti, ritagli di giornali incorniciati illustravano i successi degli investigatori dell'Operazione Carcajou.

Mi avvicinai alla segretaria, una donna di mezza età con una tinta di capelli eccessiva e un grosso neo sulla guancia. Spostò gli occhi dal suo lavoro per il tempo necessario a indirizzarmi verso la sala riunioni.

All'interno trovai una decina di uomini seduti intorno a un tavolo rettangolare e altri appoggiati alle pareti. Il direttore dell'unità, Jacques Roy, si alzò appena mi vide. Era un uomo basso e muscoloso, dalla carnagione rubizza; i capelli brizzolati erano pettinati con la riga in mezzo. Nel complesso ricordava un'immagine di fine Ottocento.

«Dottoressa Brennan, siamo contenti di averla con noi. Lei darà un enorme aiuto ai miei investigatori, e anche ai suoi colleghi del Laboratoire. Prego, si accomodi» e mi indicò una sedia vuota.

Appesi il giubbotto allo schienale della sedia e presi posto. Mentre altre persone entravano, Roy ci spiegò il motivo della riunione. Alcuni dei presenti erano passati all'Operazione Carcajou solo di recente mentre altri, pur non essendo nuovi, avevano richiesto una seduta di aggiornamento. Roy avrebbe illustrato rapidamente il mondo dei biker in Québec, dopodiché l'agente Quickwater sarebbe venuto a riferirci i risultati della riunione operativa cui aveva partecipato all'Accademia dell'FBI.

D'un tratto ebbi la sensazione di trovarmi in una distorsione temporale. Ero di nuovo a Quantico, ma si parlava francese e il massacro descritto era avvenuto in un luogo che conoscevo e che mi era caro. Le due ore che seguirono mi dischiusero un mondo che pochi altri conoscevano, un mondo che fece rabbrividire il mio corpo e raggelò la mia anima.

 

6

 

«Comincerò con qualche informazione preliminare.»

Roy parlava dal fondo della sala. Sul leggio aveva qualche foglio di appunti, che però non consultava.

«I motoclub irregolari comparvero sulla West Coast degli Stati Uniti subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni reduci, una volta rientrati in patria, non riuscirono più a inserirsi nella società ormai pacificata e presero a scorrazzare per il Paese a bordo delle loro Harley-Davidson molestando la cittadinanza e, più in generale, adottando comportamenti fastidiosi. Formarono gruppi sparsi dai nomi eloquenti: Booze Fighters, o combattenti della sbronza; Galloping Gooses, cioè oche galoppanti; Satan's Sinners, i peccatori di Satana; Winos, gli avvinazzati. Diciamo che fin dall'inizio si capì che questi tizi non erano i candidati ideali per entrare in seminario.»

Risatine e commenti sottovoce.

«Il gruppo di maggiore impatto fu una banda di spostati che si faceva chiamare P.O.B.O.B., Pissed Off Bastards of Bloomington, e cioè i bastardi scoglionati di Bloomington, diventati in seguito Hells Angels, dal nome di uno squadrone di cacciabombardieri della Seconda Guerra Mondiale il cui simbolo era un teschio con l'elmetto. Dalla prima senone di San Bernardino, in California, gli Hells Angels si sparpagliarono rapidamente in tutto il Nord America, imitati da altri gruppi che, come loro, si diffusero su scala nazionale e, in seguito, internazionale. Oggi le quattro bande principali sono gli Hells Angels, gli Outlaws, i Bandidos e i Pagans. A parte questi ultimi, tutti gli altri hanno sezioni al di fuori degli Stati Uniti, soprattutto gli Hells Angels.»

Un uomo seduto al tavolo alzò la mano. Aveva il ventre pronunciato e la fronte molto stempiata e assomigliava in modo sorprendente all'investigatore Andy Sipowicz della serie televisiva NYPD Blue.

«In termini di cifre, tutto questo che cosa significa?»

«Dipende dalla fonte, ma secondo le stime più accreditate gli Hells Angels contano più di milleseicento membri in Europa, Australia e Nuova Zelanda. Il grosso ovviamente si trova negli Stati Uniti e in Canada, ma a tutt'oggi contano almeno centotrentatré sezioni in tutto il mondo.

«Secondo il rapporto annuale dei servizi segreti canadesi del 1998, i Bandidos hanno sessantasette sezioni e circa seicento adepti in tutto il mondo. Altre fonti li portano a ottocento.»

«Sacrement!»

«Che cosa identifica un motoclub irregolare?» Il ragazzo che aveva posto la domanda doveva avere meno di vent'anni.

«Tecnicamente la dicitura MCI si riferisce a quei motoclub che non sono iscritti alla American Motorcycle Association, né alla Canadian Motorcycle Association, che sono i membri nordamericani della Féderation Internationale de Motocyclisme, con sede in Svizzera. Secondo l'associazione americana i motoclub non iscritti corrispondono solo all'uno per cento del numero complessivo dei motociclisti, ma è proprio questa frangia di deviati che getta discredito sull'intero mondo dei biker. Cattiva reputazione che in ogni caso i ragazzi assecondano di buon grado. Ho visto il simbolo di questo uno per cento tatuato sulle peggiori spalle del Paese.»

«Già. Il triangolino che identifica la crema dei biker.» Il commento era dell'investigatore alla mia destra, coda di cavallo e orecchino a borchia.

«La feccia dei biker, vorrai dire.» Sipowicz. Il suo accento francese suonava esattamente come me lo sarei aspettato se NYPD Blue fosse stato girato a Trois Rivières.

Altre risate.

Roy indicò una pila di manuali al centro del tavolo. «Là troverete informazioni più precise sulla struttura degli MCI. Per il momento leggetele; ci torneremo sopra in un altro momento. Oggi vorrei parlare della situazione locale.»

Accese un proiettore. Sullo schermo comparve un pugno chiuso con una svastica tatuata sul polso e le lettere F.T.W. in rosso e nero.

«La filosofia cui si ispirano i biker irregolari può essere riassunta in un solo slogan.»

«Fuck the world!» gridò all'unisono l'uditorio.

«F.T.W. Cioè: fanculo al mondo» ripeté Roy. «Le tue insegne e i tuoi fratelli vengono prima di tutto e pretendono fedeltà assoluta. I non bianchi non sono desiderati.»

Roy passò alla diapositiva successiva. Sullo schermo comparve una foto in bianco e nero con sedici uomini raggruppati in tre file disordinate. Avevano tutti la barba lunga e indossavano gilè di pelle corredati di spillette e insegne. I loro tatuaggi avrebbero impressionato un guerriero maori. Per non parlare dell'aria truce.

«Alla fine degli anni Settanta i motoclub statunitensi degli Outlaws e degli Hells Angels entrarono in aperto conflitto con certe bande del Québec di cui volevano prendere il controllo. Nel 1977 i Popeye canadesi furono ammessi a corte e diventarono la prima sezione degli Hells Angels della nostra provincia. Ai tempi i Popeye erano il secondo MCI del Canada, con un numero di membri che oscillava tra duecentocinquanta e trecentocinquanta. Sfortunatamente per loro, solo una trentina di ragazzi aveva colpito favorevolmente gli Hells Angels al punto da ottenere il permesso di indossare le loro insegne. Il resto fu licenziato in tronco. In questa immagine vedete alcuni dei reietti. Si tratta della famigerata sezione Nord. Cinque di questi tizi furono liquidati dai loro fratelli Angels e la sezione scomparve.»

«Perché?»

«Ogni motoclub ha un codice di comportamento che i membri sono tenuti a rispettare. Fin dai tempi della fondazione, negli anni Quaranta, gli Hells Angels avevano introdotto una regola che vietava l'uso dell'eroina e degli aghi. E questo principio è diventato ancora più importante dopo la svolta imprenditoriale. Tenete presente che questi non sono i biker di una volta. Questa non è la ribellione sociale degli anni Cinquanta, né la sottocultura della droga e della rivoluzione di moda negli anni Sessanta. I biker di oggi fanno parte di raffinate organizzazioni criminali. Questi tizi sono prima di tutto uomini d'affari. I tossici possono causare problemi e sperperare i soldi del motoclub. E questo non può essere tollerato.»

Roy indicò lo schermo.

«Tornando ai nostri amici, nel 1982 la sezione di Montréal approvò norme ancora più severe contro l'uso di droghe pesanti e condannò a morte o all'espulsione qualsiasi membro degli Angels che non le rispettasse. I fratelli della sezione Nord, però, erano troppo affezionati alla coca e decisero di continuare per la loro strada. Forse la neve gli aveva fuso i neuroni dedicati all'aritmetica, perché non si resero conto che erano rimasti in pochi.»

Roy indicò con una penna cinque uomini tra quelli sullo schermo.

«Nel giugno del 1985 questi tizi furono ritrovati addormentati sul fondo del San Lorenzo. Uno dei loro sacchi a pelo venne a galla, mentre per ripescare gli altri si dovette ricorrere a una draga.».

«In giro per affari.» Coda di cavallo.

«A tempo indeterminato. Erano stati uccisi nella sede degli Hells Angels di Lennoxville. Pare che la festa a cui erano stati invitati si fosse rivelata diversa da quel che si aspettavano.»

«È questo che ha innescato la guerra attuale?» domandai.

«Non proprio. Un anno dopo che gli Hells Angels ebbero adottato i Popeye, un gruppo di Montréal chiamato Satan's Choice, la scelta di Satana, diventò la prima sezione degli Outlaws in Québec. E da quel momento in poi non hanno più smesso di farsi fuori a vicenda.»

Roy indicò sulla fotografia un uomo molto magro accovacciato in prima fila.

«La guerra è scoppiata quando questo Hells Angels uccise uno degli Outlaws durante una sparatoria a bordo delle rispettive auto. Da quel momento in poi per molti anni è stata caccia aperta.»

«Il loro motto è: Dio perdona, gli Outlaws no.» Mentre parlava, Sipowicz scrisse il suo nome, Kuricek, su uno dei manuali. Mi chiesi quante persone si sbagliavano e lo chiamavano Sipowicz.

«Vero. Ma da allora gli Outlaws del Québec hanno subito diversi rovesci di fortuna. Cinque o sei sono finiti in galera e la loro sede è stata completamente bruciata qualche anno fa. La guerra attuale si combatte tra gli Angels e un gruppo canadese chiamato Rock Machine e relativi motoclub di copertura.»

«Gente di classe» commentò Sipowicz-Kuricek.

«Anche i Rock Machine hanno conosciuto tempi duri» continuò Roy. «Fino a poco tempo fa.»

Passò a una diapositiva che mostrava un uomo con un basco, abbracciato a un compagno in giubbotto di pelle. Quest'ultimo esibiva sul dorso del giubbotto il disegno stilizzato di un bandito messicano, coltello in una mano e pistola nell'altra. Sopra e sotto la figura, due mezzelune rosse e gialle identificavano la persona come il vice presidente nazionale del motoclub dei Bandidos.

«I Rock Machine stavano tirando gli ultimi, ma pare che di recente si siano ripresi, perché si sono visti alcuni dei loro adepti andare in giro con le insegne dei Bandidos in prova.»

«In prova?» domandai.

«I Rock Machine sono in una specie di stallo perché i Bandidos stanno decidendo se sono un buon pollo da spennare.»

«Capisco il vantaggio dei Rock Machine, ma mi sfugge quello dei Bandidos» osservai.

«Per anni i Bandidos si sono accontentati del traffico locale di anfetamine e sostanze stupefacenti, cui si sommavano i proventi di qualche giro di prostituzione; a livello nazionale l'organizzazione non era molto forte. Oggi però gli equilibri sono cambiati e la nuova leadership riconosce i vantaggi dell'espansione e del controllo stretto delle sezioni.

«Guardate il Rocker sullo sfondo.» Roy indicò una delle due mezzelune sul giubbotto di un uomo in secondo piano. «La parola "Québec" è stata sostituita con "Canada". E questa è un'indicazione piuttosto chiara circa la direzione che i Bandidos intendono prendere. Ma potrebbe non essere facile come credono.»

Altra diapositiva. Una formazione di motociclette lungo una highway.

«Questa foto è stata scattata qualche settimana fa ad Albuquerque, nel New Mexico. I Bandidos stavano andando a un raduno organizzato dalla sezione dell'Oklahoma. Tra i ragazzi fermati dalla polizia per una serie di infrazioni c'era anche il presidente del motoclub internazionale, così gli investigatori hanno colto l'occasione per interrogarlo sulle molte fecce nuove che circolavano al loro interno. Il presidente ha ammesso che i Bandidos stavano valutando la possibilità di aprire nuove sezioni in tutto il mondo, ma quando gli è stato chiesto dei Rock Machine, ha rifiutato di rispondere.

«Ne deriva che tra i due gruppi non ci sono ancora accordi definitivi. Il presidente era appena rientrato da una riunione della National Coalition of Motorcyclists, la lega nazionale dei motociclisti, durante la quale i Bandidos e gli Hells Angels avevano cercato di trovare un accordo sui Rock Machine. Gli Angels non gradiscono la campagna di espansione dei Bandidos e si sono offerti di sciogliere un'aspirante sezione in New Mexico se i Bandidos rinunciano alle trattative con il motoclub del Québee.»

«Sicché i Rock Machine sono effettivamente in sospeso?» Coda di cavallo.

«Sì. Ma se vengono inglobati nei Bandidos, da queste parti gli equilibri cambieranno.» La voce di Roy era cupa.

«A livello locale, la presenza dei Rock Machine è relativamente recente, n'est-ce pas?» domandò un investigatore dall'aria giovanile.

«Sono in circolazione dal 1977» rispose Roy. «Ma hanno aggiunto la dicitura MC al loro nome solo nel 1997. Prima non erano interessati ad assimilarsi a una cosa così convenzionale come un motoclub. È stata una sorpresina sui biglietti natalizi di quell'anno.»

«Biglietti natalizi?» Pensai a una battuta.

«Sì. Questi ragazzi sono molto attenti ai valori della tradizione. Nella sala colloqui della prigione non si parlava d'altro.» Kuricek.

Risate.

«I biglietti permettono ai vari di membri di tenersi in contatto» spiegò Roy. «Lo svantaggio è che vanno anche a ingrossare i fascicoli del servizio di spionaggio delle bande rivali.»

Roy passò a una cartina di Montréal.

«Attualmente i Rock Machine stanno dando battaglia agli Hells Angels per il controllo del traffico di stupefacenti all'interno della nostra provincia. E si parla di grosse cifre. Secondo il Viceprocuratore Generale, il traffico di droga in Canada frutta alle bande del crimine organizzato dai sette ai dieci miliardi di dollari l'anno. E al Québec spetta una grossa fetta della torta.»

Indicò due zone della città.

«Le due bande si contendono le zone est e nord di Montréal e alcune parti della città di Québec. Dal 1994 ci sono state centinaia di esplosioni e di incendi dolosi e niente meno che centoquattordici omicidi.»

«Inclusi Marcotte, i gemelli Vaillancourt e la piccola Toussaint?» domandai.

«Osservazione corretta. Centodiciotto. E molte altre persone risultano disperse e presumibilmente morte.»

«Quanti di questi stronzi di guerrieri sono in trincea?» Kuricek.

«La prima linea conta circa duecentosessantacinque persone per gli Angels e una cinquantina per i Rock Machine.»

«Tutto qui?» Ero stupita che così poche persone potessero produrre un tale sconquasso.

«Non dimentichi la seconda linea.» Kuricek si appoggiò allo schienale della sedia.

«Entrambi i contendenti sono fiancheggiati da motoclub di copertura. Sono questi perdenti che fanno tutto il lavoro sporco.» Roy.

«Lavoro sporco?» A me tutto ciò che riguardava queste bande sembrava sporco.

«Distribuzione e spaccio di droga, recupero crediti, approvvigionamenti di armi ed esplosivi, intimidazioni, violenza, omicidi. Questi motoclub di copertura radunano la feccia del mondo dei biker irregolari e sono disposti a qualunque cosa pur di dimostrare a quelli sopra di loro che hanno le palle. Ecco perché è così difficile incastrare un membro effettivo dei motoclub più importanti. Quei bastardi sono maledettamente sfuggenti e lavorano sempre a distanza di sicurezza.»

«Quindi, se anche si riesce a pizzicarli, loro serrano i ranghi e utilizzano i loro fantocci per terrorizzare o far fuori i testimoni.» Kuricek.

Ripensai ai brandelli di carne che un tempo erano stati i gemelli Vaillancourt «Gli Heathens sono fiancheggiatori dei Rock Machine?»

«C'est ça.»

«Chi sono gli altri?»

«Vediamo. I Rowdy Crew, i Jokers, i Rockers, gli Evil Ones, i Death Riders...»

In quel momento Martin Quickwater apparve sulla porta. Indossava un completo blu scuro e una camicia bianca, e ricordava più un avvocato fiscalista che un investigatore esperto in crimine organizzato. Annuì a Roy e riservò una semplice occhiata al resto dei presenti. Quando mi vide, socchiuse gli occhi e non disse nulla.

«Ah, bon. Monsieur Quickwater ci fornirà il punto di vista dell'FBI.»

Ma Roy si sbagliava. Quickwater ci portava novità urgenti. Il conto dei morti stava per essere aggiornato.

 

7

 

Il giorno seguente all'alba ero già alla sede dei Vipers di Saint-Basile-le-Grand.

L'edificio sorgeva all'interno di un appezzamento interamente circondato da una recinzione elettrificata. Una serie di telecamere per la sorveglianza punteggiava il margine superiore della barriera e potenti riflettori illuminavano il perimetro della proprietà.

Il cancello che si apriva sul lato della strada principale era controllato elettricamente e monitorato dall'interno della casa. Al nostro arrivo lo trovammo aperto; il citofono rimase muto. Avevo notato una telecamera puntata su di noi ma sapevo che nessuno ci stava osservando. Il mandato di perquisizione era già stato esibito e lungo il viale di accesso si allungava una fila di auto civetta, di volanti e di veicoli dell'ufficio del coroner. C'era anche il furgone della Scientifica.

Quickwater oltrepassò il cancello con la sua automobile e guadagnò la fine della fila. Mentre spegneva il motore mi guardò di traverso senza dire nulla. Restituii lo sguardo, presi lo zainetto e uscii.

Lo spazio dietro la casa era occupato da un bosco, quello davanti da un terreno incolto attraversato da un viale di ghiaia che univa il cancello a un anello di asfalto attorno all'edificio. L'asfalto era delimitato da una serie di coni in cemento alti più di un metro che impedivano il parcheggio a meno di cinque metri dai muri esterni della casa. L'accorgimento mi fece pensare all'Irlanda del Nord dei primi anni Settanta. Come i cittadini di Belfast, i biker del Québec non sottovalutavano affatto il pericolo di un'autobomba. Un Ford Explorer nero era fermo ai limiti dell'asfalto. La luce del sole splendeva all'orizzonte striando di giallo e di rosa lo sfondo violetto dell'alba. Un'ora prima, quando Quickwater era venuto a prendermi, il cielo era scuro come il mio umore. Non avevo voglia di andare in quel luogo. Non avevo voglia di avere a che fare con Mister Simpatia. Ma soprattutto non avevo nessuna voglia di disseppellire biker morti.

Le notizie del giorno prima mi pesavano addosso come un macigno. Ascoltando Quickwater, avevo capito che quello che doveva essere solo un impegno a margine del mio lavoro, accettato per poter lavorare al caso di Emily Anne, sarebbe diventato un incarico a tempo pieno, e il pensiero di tutto ciò che avrei dovuto fare mi metteva sotto pressione. Cercai di motivarmi pensando che una bambina di nove anni era stesa sul tavolo dell'obitorio e che la sua famiglia distrutta non sarebbe stata più la stessa. Io ero lì per loro.

Il cecchino dei Vipers che aveva sparato sui gemelli Vaillancourt si era dichiarato pronto a collaborare. Di fronte al terzo arresto e alle accuse di omicidio di primo grado, aveva offerto la posizione di due cadaveri. Il giudice aveva replicato concedendogli il secondo grado. Voilà. Alba di un nuovo giorno a Saint-Basile.

Mentre percorrevamo il viale, il sole si insediò definitivamente nel cielo. Riuscivo ancora a vedere il mio respiro, ma sapevo che presto la giornata si sarebbe intiepidita.

La ghiaia scricchiolava sotto le scarpe e di tanto in tanto qualche sassolino schizzava di lato ricadendo nel canaletto laterale. Gli uccellini cinguettavano e brontolavano, comunicandoci il loro disappunto per il nostro arrivo.

Ciucciauova, pensai. La mia giornata è iniziata prima della vostra.

Non fare la bambina, Brennan. Sei infastidita perché Quickwater è uno stronzo, ignoralo. Pensa al tuo lavoro.

Proprio in quel momento mi rivolse la parola.

«Devo trovare il nuovo compagno che mi hanno assegnato. È appena entrato nell'Operazione Carcajou.»

Non mi disse il suo nome, ma lo sfortunato agente mi ispirò una simpatia immediata. Inspirai a fondo, sistemai lo zainetto e lo seguii guardandomi in giro.

Una cosa mi fu subito chiara. I Vipers non sarebbero mai stati eletti Giardinieri dell'Anno. La porzione anteriore della proprietà era un buon esempio di ciò che gli ecologisti eletti al Congresso si sforzavano di proteggere. Il terreno che portava fino alia strada principale era una distesa di vegetazione morta allargata sulla fanghiglia rossastra della primavera. La foresta di cespugli dietro la casa era esclusivo dominio dei quadrupedi che l'abitavano.

Ma oltre l'anello di asfalto, all'interno del cortile, una certa progettazione era evidente. Ispirata allo stile delle migliori prigioni americane, la recinzione non mancava di alcun elemento essenziale, compresi muri di mattoni alti tre metri e mezzo, telecamere di sorveglianza, rilevatori di movimento e riflettori. Il cortile era costituito da una spianata di cemento e disponeva di barbecue a gas, una cuccia per cani con catena, dei cerchi di metallo per giocare a pallacanestro. Una porta di acciaio aveva sostituito il cancello originario, e l'entrata del garage era blindata e sigillata.

Durante il tragitto, Quickwater aveva aperto bocca solo per darmi qualche notizia sulla proprietà. La casa era stata costruita da un newyorkese arricchitosi con il traffico degli alcolici ai tempi del Volstead Act. A metà degli anni Ottanta, i Vipers l'avevano acquistata dagli eredi del contrabbandiere e, prima di esibirvi le loro insegne, avevano speso quattrocentomila dollari per ristrutturarla. Oltre al sistema di sicurezza lungo tutto il perimetro, i ragazzi avevano blindato tutte le porte e installato vetri antiproiettile su tutte le finestre del primo piano.

Ma quella mattina le misure di sicurezza erano disattivate. Come il cancello d'ingresso, anche la porta della sede era spalancata. Quickwater entrò e io lo seguii.

All'interno la mia prima reazione fu di sorpresa: l'arredamento era estremamente lussuoso. Se mai quei tizi avessero dovuto pagare una cauzione o assumere un avvocato, avevano solo da battere un'asta. La sola attrezzatura elettronica avrebbe assicurato loro la collaborazione del penalista più quotato del momento.

La casa era costruita su più piani, collegati da una scala centrale di metallo. Attraversammo l'atrio, piastrellato in bianco e nero, e cominciammo a salire. Alla mia sinistra notai una sala giochi dotata di biliardo, calcetto e bar con bancone. Sulla parete, sopra le bottiglie dei superalcolici, un serpente arrotolato con tanto di teschio, denti veleniferi e occhi sporgenti ghignava in arancione fluorescente. In fondo al bancone del bar, sedici monitor fornivano altrettante prospettive della proprietà su schermi in bianco e nero. Nella stanza c'erano anche un grosso televisore e un impianto stereo che ricordava un pannello di controllo della NASA. Mentre passavamo, un agente del dipartimento di polizia di Saint-Basile ci salutò con un cenno della testa.

Al secondo piano c'era una palestra con almeno cinque o sei attrezzi da body building. Sulla sinistra vidi due panche e una serie di bilancieri di fronte a una parete di specchi. I Vipers dovevano essere patiti della fitness.

Al terzo piano attraversammo un soggiorno arredato in uno stomachevole stile biker fine millennio. La moquette rosso cupo faceva a pugni con l'oro delle pareti e l'azzurro dei tessuti degli enormi divani e degli amorini. Tavoli e tavolini in ottone e vetro fumé reggevano una collezione di sculture di serpenti. Serpenti in legno, ceramica e pietra adornavano anche i davanzali delle finestre e digrignavano i denti da sopra il televisore più grande che avessi mai visto.

Le pareti erano decorate con ingrandimenti di fotografie scattate durante i raduni o le soirée del motoclub. Un'immagine dopo l'altra, i vari membri flettevano i bicipiti sudati, stavano a cavalcioni delle loro moto o scolavano bottiglie e lattine di birra. Quasi tutti sembravano appartenere a quella porzione del grafico del quoziente di intelligenza dove la curva piega garbatamente verso il basso.

Dopo cinque camere da letto e un bagno in marmo nero con idromassaggio e cabina doccia grande quanto un campo da squash, arrivammo alla cucina. Alla mia destra notai un telefono a parete accanto a una lavagnetta bianca con numeri telefonici, scarabocchi in codice e il nome di un avvocato della zona.

Alla mia sinistra vidi un'altra scala.

«Di sopra cosa c'è?» domandai a Quickwater.

Nessuna riposta.

Un altro agente del comando di Saint-Basile aspettava in fondo alla stanza, «C'è un'altra sala ricreazione» mi disse in inglese. «Con tanto di terrazza e bagni termali per dieci persone.»

Due uomini sedevano a un tavolo di legno davanti a un piccolo bovindo; uno era sciatto, l'altro curatissimo e vestito di tutto punto.

Quickwater salutò con un cenno della testa. Io ebbi un tuffo al cuore.

L'innominato e sfortunato nuovo compagno di Quickwater era Luc Claudel. Fantastico. Avrei dovuto lavorare con ben due Mister Simpatia contemporaneamente.

Claudel parlava tamburellando le dita su un foglio che doveva essere il mandato di perquisizione.

L'uomo accanto a lui aveva l'aria di non aver avuto un buon risveglio. Gli occhi erano neri e crudeli, il naso aquilino curvava a sinistra proprio all'altezza della gobba, sul labbro superiore aveva più baffi di un tricheco. Si guardava i piedi nudi, sfregando nervosamente le mani abbandonate tra le ginocchia.

Quickwater mi indicò il tricheco.

«L'uomo di Neandertal è Sylvain Bilodeau. Luc gli sta spiegando che siamo qui per fare un po' di giardinaggio.»

Bilodeau lanciò a Quickwater e a me uno sguardo torvo e gelido, poi tornò a stropicciarsi le mani.

Un serpente a tre colori avvolgeva l'intera lunghezza del suo braccio e sembrava strisciare al minimo movimento dei muscoli. Sospettai che la metafora di Quickwater non rendesse giustizia ai nostri cugini del Paleolitico.

Ancora qualche parola, poi Bilodeau schizzò in piedi. Non arrivava al metro e sessanta, ma pareva il testimonial ideale per una pubblicità di steroidi. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Tu dici solo stronzate, bello. Non avete nessun diritto di fare le vostre irruzioni del cazzo e di rivoltare tutta la casa e il giardino». Parlava un francese dalle fortissime inflessioni dialettali, e del suo sfogo non riuscii a capire quasi niente. Mi accontentai di afferrare il succo.

Claudel si alzò e lo guardò dritto negli occhi.

«Guarda caso questo foglietto dice che è esattamente quello che possiamo fare. E come ti ho già spiegato, tu hai solo due possibilità: o fai il tuo bel compitino e noi ti lasciamo qui seduto buono, buono come uno scolaretto, oppure ti portiamo via in manette e ti regaliamo una sistemazione gratuita a tempo indeterminato. A te la scelta, Nasino.» Il tono di Claudel era passato dalla minaccia alla derisione.

Bella mossa, pensai.

«Che cazzo dovrei fare?»

«Devi tranquillizzare i tuoi amici e fargli capire che oggi gli conviene non passare da queste parti. A parte questo, avrai una giornata di tutto riposo. Non dovrai fare assolutamente nulla. E il caporalmaggiore Berringer starà qui con te per essere certo che obbedirai.»

«Io qui ho delle cose da fare. Perché cazzo siete arrivati proprio questa mattina?»

Claudel gli afferrò una spalla. «Vedi, Nasino, la vita è solo questione di tempismo.»

Con una scrollata di spalle Bilodeau si liberò dalla stretta, poi si avvicinò alla finestra.

«Bastardi figli di puttana.»

Claudel sollevò le mani, come per dire «io che ci posso fare?». «Forse tu hai problemi più seri dei nostri, Nasino. Immagino che i fratelli non saranno contenti di sapere che stavi dormendo durante il turno di guardia.»

Bilodeau prese a passeggiare per la stanza come un animale in gabbia. Poi si fermò davanti al piano di lavoro e lo colpì con entrambi i pugni.

«Fanculo.» I muscoli del collo gli si gonfiarono per la rabbia, una vena pulsava al centro della fronte.

Un attimo dopo si voltò, esaminò una faccia alla volta e mi inchiodò con uno sguardo degno di Charles Manson, puntandomi il dito contro.

«Quel vostro bastardo d'un fottuto voltagabbana deve fare centro al primo colpo.» La voce gli tremava per la rabbia. «Perché ormai è un morto ambulante.»

 

Il fottuto voltagabbana in questione stava aspettando a cento metri da lì, sul sedile posteriore di un'anonima jeep. L'accordo tra lui e il giudice prevedeva che ci accompagnasse sul luogo della sepoltura. Tuttavia, niente l'aveva convinto a scendere dall'auto prima di essere ben lontano dalla casa. O lo accompagnavamo al sito con la jeep, o non se ne faceva nulla.

Uscimmo dalla sede e ci infilammo subito in macchina, io sul sedile anteriore, Claudel dietro.

Quickwater andò a parlare con la squadra addetta al recupero. L'abitacolo era così pieno di fumo che facevo fatica a respirare.

Il nostro informatore era un uomo di mezz'età, con gli occhi verde chiaro e i capelli legati dietro la nuca. La pelle bianca, i capelli lisci e lo sguardo di serpente lo facevano assomigliare a una creatura che si era evoluta nelle acque di una grotta sotterranea. I Vipers parevano un gruppo decisamente appropriato. Come Bilodeau, era basso, ma diversamente da Bilodeau non era interessato a un soggiorno prolungato nella sede del motoclub.

Claudel fu il primo a parlare.

«Spera che vada tutto bene, Rinaldi, altrimenti i tuoi genitori possono cominciare a organizzarti il funerale. Ho sentito che il tuo indice di gradimento tra i confratelli è precipitato.»

Rinaldi aspirò una boccata di fumo, trattenne il fiato per qualche secondo, poi espirò dal naso. Le narici, tese per lo sforzo, diventarono pallide.

«Chi è 'sta tipa?» La sua voce era strana. Sembrava che cercasse di alterarla per nascondere la sua vera identità.

«La dottoressa Brennan. Sarà lei a dissotterrare il tuo tesoro, Rana. E tu l'aiuterai in tutti i modi possibili, vero?»

Rinaldi espirò un'altra boccata di fumo. Anche le labbra, come le narici, impallidirono.

«E sarai docile come un cadavere all'obitorio, intesi?»

«Cominciamo o no con 'sta cazzo di storia?»

«L'obitorio non mi è venuto in mente a caso, Rana. Sappi che se questa è tutta una bufala la similitudine si rivelerà quanto mai azzeccata.»

«Non mi sono inventato un bel cazzo di niente. Là sotto ci sono dei tipi che si mangiano la terra. Adesso andiamo avanti con 'sto spettacolo.»

«Andiamo» concordò Claudel.

Rinaldi puntò un dito ossuto facendo tintinnare le manette che gli legavano i polsi.

«Fate il giro della casa e cercate uno sterrato sulla destra.»

«Direi che come inizio può andare, Rana.»

Rana. Un altro nomignolo calzante, pensai ascoltando la voce roca e strana di Rinaldi.

Claudel scese dalla jeep e mostrò il pollice alzato a Quickwater, che aspettava dieci metri più indietro, vicino al furgone della Scientifica. Mi voltai a guardare e sorpresi Rinaldi che mi fissava, come se volesse scoprire il mio codice genetico. Quando i nostri occhi si incontrarono, continuò a fissarmi. Io feci altrettanto.

«Ha qualche problema con me, signor Rinaldi?» gli domandai.

«Strano lavoro per una pupa...» commentò senza abbassare lo sguardo.

Trascorse qualche secondo, poi Rana sogghignò scuotendo appena la testa e spense il mozzicone nel piccolo posacenere tra i due sedili anteriori. Quando le manette scivolarono indietro, sull'avambraccio gli notai due saette tatuate e sopra la scritta FILTHY FEW, pochi e maledetti.

Claudel rientrò nella jeep insieme a Quickwater, che si sedette al volante senza aprire bocca. Fece il giro della casa, poi tagliò dentro la boscaglia. Rinaldi guardava fuori in silenzio, sicuramente agitato dai suoi demoni.

Lo sterrato indicato da Rinaldi era in realtà una coppia di solchi appena visibili, su cui le automobili e il furgone della Scientifica dietro di noi procedevano a fatica tra fango e vegetazione bagnata. A un certo punto Quickwater e Claudel furono costretti a scendere per spostare un albero caduto che ostruiva il passaggio. Mentre trascinavano via i rami ormai marci, una coppia di scoiattoli schizzò via per mettersi al riparo.

Quickwater tornò alla jeep madido di sudore e fradicio dalle ginocchia in giù. Claudel era perfettamente in ordine, e si muoveva come se indossasse uno smoking. Mi venne il sospetto che quell'uomo riuscisse a darsi un contegno anche quando girava in mutande. Ma forse non gli capitava mai.

Claudel si allentò la cravatta di un buon millimetro e tamburellò sul finestrino di Rinaldi. Io aprii la mia portiera per far entrare un po' d'aria ma Rana era già passato a un'altra sigaretta.

Claudel tamburellò di nuovo e Rinaldi tirò la maniglia. La portiera si aprì e il fumo cominciò a uscire.

«Butta via quella roba prima di costrìngerci alla maschera antigas. Hai ancora qualche neurone in attività, Rana? Riconosci il terreno?» Claudel.

«Il posto è questo. Cerca di chiudere quel cazzo di bocca e lasciami trovare qualche punto di riferimento.»

Rinaldi scese dalla jeep e cominciò a guardarsi in giro. Mentre il nostro informatore esaminava la zona, Quickwater mi concesse un altro dei suoi sguardi gelidi. Lo ignorai e cominciai anch'io a esaminare il luogo.

Il punto doveva essere stato utilizzato come discarica perché era disseminato di lattine, contenitori di plastica, bottiglie di vino e di birra, un vecchio materasso e diverse molle arrugginite. Il terreno era segnato dalle impronte leggere di un cervo che disegnavano diversi giri e scomparivano in mezzo agli alberi circostanti.

«Sto diventando impaziente, Rana» lo sollecitò Claudel. «Conterei fino a tre, come si fa con i bambini, ma sono sicuro che la matematica pura ti manderebbe in confusione.»

«Vuoi chiudere quel cazzo di...»

«Ehi, cerca di stare calmo» lo avvertì Claudel.